Piscicoltura sostenibile nella comunità di Inhangome

In Mozambico una comunità di pescatori affronta la scarsa produzione del suolo e le condizioni climatiche avverse, che rendono insufficiente l’agricoltura per raggiungere il sostentamento delle famiglie, attraverso la piscicoltura praticata in modo sostenibile.

L’implementazione della piscicoltura nella comunità di Inhangome, in Mozambico, ha segnato un notevole successo nell’ambito del progetto KATAGYA (SPERIMENTA!) – Donne al centro, per la diversificazione alimentare e la salvaguardia ambientale della città di Quelimane”, promosso da Mani Tese insieme a Fondazione E-35, Municipio Di Quelimane e Associazione Mani Tese Faenza ed è cofinanziato dalla Regione Emilia Romagna. 

Nella regione della Zambesia, infatti, persistono sfide come la scarsa produzione del suolo e le condizioni climatiche avverse. La comunità di Inhangome soffre di queste difficoltà e deve fare i conti con un’agricoltura insufficiente per garantire il sostentamento delle famiglie.   

Uno dei problemi principali è la deforestazione delle mangrovie nei dintorni del villaggio, un’azione compiuta dagli stessi abitanti per ottenere il carbone necessario per la cucina e il riscaldamento. La deforestazione riduce anche le possibilità di pesca, un’attività tradizionale in questa comunità di pescatori.

Oltre al ripristino delle mangrovie, Mani Tese ha puntato, fra le altre cose, anche sullo sviluppo di allevamento di tilapia come pratica alternativa sostenibile per garantire la sicurezza alimentare della comunità.  

Il sistema di pesca adottato è sostenibile in quanto la rete utilizzata e la tecnica di cattura consentono di selezionare solo i pesci più grandi, lasciando i pesci più piccoli nelle vasche. 

Le razioni per i pesci sono state inoltre prodotte con scarti di alimenti locali (patata dolce, resti di mais e banana). Si tratta poi di un’attività facilmente replicabile a livello familiare. 

L’inziativa ha raggiunto inoltre l’obiettivo di aumentare le capacità e la partecipazione delle donne e di promuovere l’attivismo giovanile contribuendo a migliorare le competenze delle donne locali e stimolando l’interesse e la partecipazione attiva dei giovani nella comunità.  

In totale sono state costruite tre vasche piscicole, due in un primo momento e la terza successivamente. La costruzione è stata affidata ai membri della comunità di Inhangome, attraverso la creazione di un gruppo di lavoro composto da giovani (15 donne e 11 uomini).  Questo gruppo è stato prima formato per acquisire competenze relative alla costruzione delle vasche, alle tecniche di pesca e alla produzione delle razioni alimentari. 

Mani Tese ha fornito gli avannotti iniziali, 1000 per vasca, che sono stati acquistati e trasportati a Inhangome dopo la costruzione delle vasche.  

Dopo 4 mesi dal popolamento delle vasche con avannotti, l’equipe di Mani Tese ha supportato il gruppo per la pesca e la commercializzazione. Una parte del pesce pescato (1,5 kg per persona) è stato distribuito ai beneficiari, mentre il resto è stato destinato alla vendita diretta a commercianti all’ingrosso che si sono recati nella comunità. 

Quali prospettive di sostenibilità presenta la piscicoltura nella comunità di Inhangome?  

Nonostante l’iniziale scetticismo tra i membri della comunità nei confronti del progetto, il completamento delle prime due vasche e il successo delle vendite hanno stimolato la fiducia e l’entusiasmo nella popolazione, rivelando i benefici e il potenziale di questa pratica. Le persone della comunità, dopo essere state formate, sono ora in grado di gestire autonomamente l’allevamento di tilapia e di formare gli altri membri della comunità per espandere l´attività. 

La comunità di Inhangome cerca così di trasformare il suo destino socio-economico, puntando a una crescita sostenibile e a una maggiore resilienza alle sfide ambientali e agricole. 

Una nuova economia dell’anacardo in Guinea Bissau

Il report di Mani Tese realizzato nell’ambito del progetto “Food Wave” evidenzia gli impatti ambientali della filiera nel Paese, le cui importazioni in Europa sono aumentate del 111 per cento in dieci anni.

“Tutti dicono che gli anacardi sono il nostro petrolio, io credo siano il nostro inferno”. A detta dell’ex capo dell’agenzia forestale della Guinea-Bissau, Costantino Correia, la coltivazione dell’anacardio sta portando il Paese verso l’autodistruzione. In Guinea-Bissau, dove l’85% della popolazione vive di agricoltura, disboscare da sempre è sinonimo di sopravvivenza. Perciò, ogni anno decine di ettari di vegetazione vengono dati alle fiamme per lasciare spazio alle coltivazioni di riso. Nello specifico, si tratta di coltivazioni itineranti: si sfrutta il suolo per qualche anno, dopodiché ci si sposta, per dare alla terra il tempo di rigenerarsi. Da quando però al riso è stato affiancato il caju, l’albero di anacardio, il cambiamento è diventato irreversibile. Oggi l’anacardo è diventato molto popolare, tanto da far parlare di boom della domanda di anacardi nei Paesi europei. Secondo Eurostat, in Europa in dieci anni le importazioni sono aumentate del 111 per cento e le previsioni parlano di una crescita stabile, con l’Italia quarta tra i consumatori.Altrettanto rapidamente, sono cresciuti anche gli ettari coltivati ad anacardio su scala globale, passati da poco più di un milione nel 1988 ai 7,1 milioni del 2020. Attualmente, circa la metà della produzione si concentra in Africa, in particolare in Africa Occidentale, dove genera impatti ambientali significativi. Innanzitutto perché, al pari delle monocolture di cacao e caffè, l’espansione incontrollata delle piantagioni di anacardio sta contribuendo al disboscamento nei Paesi di origine della materia prima. In secondo luogo, poiché l’87,5 per cento della lavorazione avviene all’estero, il trasporto concorre in maniera significativa alle emissioni globali. Per l’Unione Europea al momento, però, l’impatto ambientale degli anacardi non sembra essere un problema e anche i consumatori sembrano ignorare le conseguenze delle proprie scelte alimentari. La Guinea-Bissau, più di altri stati, si presenta come un caso studio particolarmente interessante per l’analisi della filiera di produzione dell’anacardo e delle sue conseguenze sull’ambiente. Perciò, Mani Tese e lavialibera, nell’ambito del progetto “Food Wave” cofinanziato dalla Commissione Europea e coordinato dal Comune di Milano, hanno condotto una ricerca sul campo in Guinea-Bissau, con l’obiettivo di avere un quadro completo della filiera, nonché delle sue ricadute ambientali e sociali. La Guinea-Bissau, infatti, è tra i primi dieci produttori al mondo di anacardi e, nel continente africano, per qualche tempo è stata seconda soltanto alla Costa d’Avorio che, però, è otto volte più grande. Oggi, il caju rappresenta il 90 per cento delle esportazioni del Paese, dà da vivere al 70 per cento della sua popolazione e copre la quota più alta di superficie coltivata, superando il riso: l’alimento base. I governi guineensi hanno iniziato a puntare sul caju come prodotto di esportazione quando gli anacardi hanno cominciato ad avere un valore economico. Presto si è passati da un’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura di scambio in cui tutto il prodotto, o quasi, viene venduto in cambio del riso necessario a soddisfare il fabbisogno interno in crescita. Così, piantare il caju è diventato il piano di tutti i contadini che speravano in guadagni facili. Eppure, la maggior parte di loro esporta il caju come materia prima, la cui vendita produce un valore, a livello locale, di oltre il 4000 per cento più basso rispetto al prezzo che ha l’anacardo nella vendita al dettaglio sul mercato europeo. Secondo Giovanni Sartor, responsabile di Mani Tese per l’Africa occidentale, per tutelare le foreste e la biodiversità in Guinea-Bissau, è necessario lavorare per la transizione agroecologica adottando un approccio ecosistemico attraverso il quale valorizzare la biodiversità. Dalle interviste con i ricercatori sono emerse la necessità di fissare limiti chiari all’estensione delle piantagioni di anacardi, nonché l’implementazione migliorata delle aree protette per limitare l’impatto ambientale entro un perimetro di sostenibilità. Per la ricercatrice specializzata in biodiversità tropicale, Filipa Monteiro, uno sviluppo auspicabile potrebbe prevedere la pianificazione di una filiera etica degli anacardi in cui tutti gli attori, governo e agricoltori, siano coinvolti con l’obiettivo di aumentare il valore della materia prima, assicurando che non sia frutto di disboscamento e sfruttamento, e contribuire, da un lato, alle necessità di sussistenza e, dall’altro, al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Giornale

Dossier Mani Tese in collaborazione con La Via Libera

Tutte in fiera per le giornate agro-alimentari!

L’associazione delle Sorelle Burkinabé di Poedogo, sostenute dal nostro progetto “TRASFORMIAMO!” in Burkina Faso, per la prima volta ha esposto i propri prodotti a una fiera nazionale.

Dal 28 al 3 dicembre si è svolta in Burkina Faso, a Ouagadougou, la Fiera JAAL, ovvero la fiera delle Giornate Agro-alimentari, che ha l’obiettivo di sensibilizzare al consumo dei prodotti del Paese contribuendo allo sviluppo di un’alimentazione sana e di qualità. 

Le donne dell’Associazione delle sorelle Burkinabé di Poedogo, sostenute dal nostro progetto “TRASFORMIAMO! Sviluppo di attività di trasformazione alimentare e promozione del cibo locale nel comune di Koubri in Burkina Faso”, cofinanziato dalla Regione Emilia-Romagna, vi hanno partecipato per la prima volta, mettendo in mostra i loro prodotti. Per diverse di loro si è trattato anche della prima volta nella capitale. Per tutte è stata la prima partecipazione a una fiera di portata nazionale. 

La fiera, organizzata da FIAB, la Federazione dell’industria Agro-Alimentare del Burkina Faso, si è tenuta presso il Salone Internazionale dell’Artigianato di Ouagadougou e ha ospitato circa un centinaio di stand di produttori Burkinabé attivi nel settore. Dopo una prima giornata d’inaugurazione, si è aperto il mercato e lo scambio tra partecipanti e visitatori. 

Le donne dell’Associazione delle Sorelle Burkinabé di Poedogo, sostenute dal progetto TRASFORMIAMO! erano presenti con il loro stand variopinto, dove hanno potuto mettere in mostra e vendere, in particolare, la pasta d’arachidi e il soumbala. Con il progetto, infatti, le donne sono state accompagnate nell’apprendimento del processo di trasformazione dell’arachide in pasta e del soumbala da grano a farina. L’obiettivo era quello di potenziare queste filiere migliorando la tecnica di trasformazione e facilitandone la produzione. Per questo, grazie al progetto, sono stati donati all’Associazione un mulino a energia solare, un torrefattore e una tostatrice, che velocizzano la trasformazione dell’arachide in pasta pronta per l’uso, e il materiale necessario per cuocere e trasformare i grani di neré in soumbala. 

“Sono molto contenta– racconta Eveline, Presidente dell’Associazionela fiera mi è piaciuta molto perché mi ha permesso, così come alle altre donne del gruppo, di conoscere qualcosa di nuovo, incontrare persone nuove e sviluppare contatti utili che potranno aiutarci a migliorare anche il nostro lavoro nel perimetro e nel centro di trasformazione”. 

 

Nel corso dell’anno le donne dell’Associazione delle sorelle Burkinabé di Poedogo si sono date parecchio da fare per cercare di migliorare la produzione e arrivare a trasformare i loro prodotti agroecologici e la fiera ha permesso loro di conoscere meglio il mercato e la concorrenza.  

Abbiamo venduto la pasta d’arachide e la farina di soumbala, insieme anche ad altri frutti della nostra produzione agroecologica come i fagioli secchi, la farina di baobab, le foglie secche di melanzana locale e la farina di fagioli – racconta Mariam, che, dal villaggio di Poedogo, per la prima volta è venuta nella capitale La fiera è stata bella. Ho imparato tante cose e adesso ho voglia di impegnarmi ancora più a fondo nel lavoro con l’associazione”. 

Per un cacao giusto in Costa d’Avorio

Il reportage realizzato per conto di Tese nell’ambito del progetto “Food Wave” finanziato dalla Commissione europea e coordinato dal Comune di Milano mostra le difficoltà dei produttori e della sostenibilità ambientale nel Paese ma anche le opportunità di una produzione rispettosa e biologica.

La Costa d’Avorio si staglia come il principale produttore mondiale di cacao, con una produzione che tocca i 2,2 milioni di tonnellate. Questo dato, tuttavia, è solo la punta dell’iceberg di una realtà complessa, dove la tradizione agricola si scontra con le pressioni della modernizzazione e le esigenze della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. La filiera del cacao è un microcosmo che riflette le dinamiche globali: da un lato, la standardizzazione imposta dal mercato internazionale, dall’altro, la lotta per preservare le peculiarità locali e la biodiversità. La filiera del cacao in Costa d’Avorio non inizia solo con la raccolta delle fave, ma si intreccia profondamente con la storia del territorio stesso e con le complesse dinamiche del diritto fondiario. I lavoratori del cacao, nonostante un reddito sopra la media nazionale, lottano contro la povertà. Discrepanze tra stipendio e costo della vita rendono difficile per molti giovani come Roland, un lavoratore di un laboratorio di cacao, sostenere sé stessi e le loro famiglie. Questa situazione evidenzia la necessità di un cambiamento nel sistema di retribuzione e di supporto ai lavoratori del settore i quali, da una parte si trovano in difficoltà di fronte a una calmierazione del prezzo a livello nazionale piuttosto arbitraria, circa 1,52 euro, mentre dall’altra i produttori delle zone rurali fanno fatica a incontrare le esigenze dell’esportazione. La filiera del cacao presenta dunque questioni di insostenibilità economica che si riverberano anche nella componente sociale e ambientale. Da una parte, un rapporto del 2022 dell’International Cocoa Initiative mostra che il 26% dei minori in un campione di 800mila produttori è vittima di lavoro minorile. Dall’altra, dal 1950 la Costa d’Avorio ha perso il 90% delle foreste, con il cacao tra i responsabili principali; l’uso crescente di pesticidi e fertilizzanti chimici per aumentare la produzione aggrava la situazione. Per questi motivi, diverse realtà nel Paese si stanno orientando al biologico. Un modo per far fronte all’insostenibilità della filiera, in particolare al livello del piccolo/medio produttore. Troviamo esempi come quelli delle cooperative di Yosran e Ndikro, situati nella regione di Tiassalé, che producono cospicue rendite sfruttando sistemi agroecologici e tecniche di produzione e fermentazione biologiche. Pratiche che non richiedono l’utilizzo di pesticidi o fertilizzanti chimici per incrementare la produzione. Queste colture di alta qualità necessitano però di un maggior sostegno a un’adeguata commercializzazione visto che al momento i costi gravano sul produttore. I vantaggi sono notevoli, non solo per la maggiore sostenibilità ambientale, ma anche per la possibilità di adempiere alle normative internazionali. Non © Luca Rondisolo, questo tipo di produzione sviluppa anche una cultura positiva relativa alla gestione comune degli ambienti, con i produttori che sono più spinti a collaborare per attività trasversali ma comunque utili come la produzione del compost o di repellenti bio. Ciò è accaduto lungo le sponde del fiume Bandama, dove col tempo è stata costruita una vera e propria biofabbrica. Un settore così altamente produttivo offre grandi opportunità anche nella trasformazione della materia prima, un modo per migliorare il mercato interno dato che al momento i prodotti derivati come il pain au chocolat o tavolette di cioccolato vengono quasi totalmente importati dalla Francia producendo un paradosso singolare; è l’esempio di Choco+ della Fondazione Gruppo Abele di Torino. Progetto che ha realizzato veri e propri laboratori di produzione a Grand Bassam che al giorno d’oggi produce circa duemila chilogrammi di cioccolato trasformato costruendo un sistema di produzione capace di sviluppare persino linee di cosmetici come burro di cacao, saponette e oli essenziali. Un sistema di filiera che non solo riesce a offrire opportunità lavorative di livello, ma che paga due euro al chilo il cacao, andando a migliorare la situazione anche delle aree rurali dove viene coltivato. Le iniziative biologiche e agroforestali, insieme ai progetti di trasformazione locale, rappresentano non solo un’ancora di salvezza per la biodiversità e per le comunità rurali, ma anche un modello di business che può rispondere alle esigenze di un mercato sempre più consapevole e esigente ma che soprattutto garantisce dei benefici che si estendono a tutta la filiera del cacao, da chi coltiva le fave a chi si delizia con il prodotto finito.

Giornale

Dossier Mani Tese in collaborazione con Altreconomia

Contrastare la violenza di genere in Guinea-Bissau

Mani Tese da alcuni anni sostiene i due unici centri di accoglienza per le vittime di violenza sulle donne nel Paese.

In Guinea-Bissau la disuguaglianza e la violenza di genere raggiungono livelli allarmanti. Le donne infatti subiscono diverse forme di violenza: domestica, psicologica, sessuale, matrimoni precoci e forzati e mutilazioni genitali femminili. Il problema della violenza di genere assume caratteri ancora più preoccupanti nelle zone rurali, a causa dell’isolamento e la difficoltà di accesso ai servizi di informazione o protezione per le donne. In una recente ricerca condotta in loco da Mani Tese, il 67% delle donne intervistate ha dichiarato di essere stata vittima di almeno un tipo di violenza. In particolare, delle 978 donne intervistate che hanno o hanno avuto un partner, ben 613 hanno affermato di aver subito violenza da quest’ultimo. Purtroppo sono pochissime le donne che denunciano gli atti di violenza: il 68% non ha raccontato a nessuno l’accaduto e solo lo 0,5% lo ha riferito a un medico. Tantissime sono inoltre le ragazze costrette a matrimoni forzati e precoci. Su 871 donne che hanno risposto a domanda diretta, l’81,1% ha dichiarato che il loro matrimonio è stato deciso dalla famiglia del marito. Infine più della metà delle donne ha subito mutilazione genitale femminile (il 52%). Si tratta soprattutto di bambine tra gli 0 e i 14 anni (30%). In uno studio realizzato nel 2021 nel quadro del progetto promosso da Mani Tese NO NA CUIDA DE NO VIDA, MINDJER!, ben il 60% delle donne intervistate ha confessato di aver subito questa pratica.

Da alcuni anni Mani Tese sostiene gli unici due centri di accoglienza per vittime di violenza di genere presenti in Guinea-Bissau: il centro di Bissau e quello, più recente, di São Domingos. I due centri di accoglienza rappresentano attualmente l’unica speranza di sopravvivenza per tantissime donne in difficoltà: ragazzine costrette a matrimoni forzati con uomini molto più grandi di loro, donne abusate dai propri compagni o dai famigliari, ragazze che subiscono mutilazione genitale femminile… Sono tante le attività dei centri sostenute da Mani Tese, le quali attualmente rientrano nell’ambito del progetto “NO TENE DIRITU A UM VIDA SEM VIOLÊNCIA” – Rafforzamento dei meccanismi di protezione delle vittime di gbv e promozione dei diritti delle donne in Guinea-Bissau” cofinanziato dall’Unione Europea e promosso da Mani Tese in partenariato con FEC – Fé e Cooperação, ENGIM – Fondazione Ente Nazionale Giuseppini Murialdo, AMIC – Associação dos Amigos da Criança. Fra le attività sostenute da Mani Tese, c’è innanzitutto la fornitura di kit alimentari e igienico-sanitari per le vittime accolte presso i centri. C’è poi anche l’appoggio per i corsi di formazione dedicati alle donne ospitate, per aiutarle a imparare un mestiere e, quindi, ad emanciparle. Fra questi, molto importanti sono i corsi di formazione in sartoria.

“Tutte le ragazze che beneficiano di questa formazione prima non sapevano nulla sulla sartoria. – Sostiene, in un video recentemente realizzato per Mani Tese, Ivaldino Paulo Martins, formatore dei corsi in sartoria – Adesso sanno già realizzare alcuni prodotti. Questo può essere utile per loro in futuro per riuscire a guadagnare qualcosa, perché è un’attività che genera reddito, e poter essere un po’ più indipendenti.” Mani Tese sta facendo tutto il possibile per mantenere i due centri di accoglienza per vittime di violenza di genere aperti, ma le necessità sono diverse e urgenti e le vittime purtroppo sono sempre tante. Per questo, recentemente Mani Tese ha deciso di sostenere la creazione di un orto sostenibile presso il centro gestito da AMIC, con il quale poter produrre cibo sia per le ospiti sia per la vendita, così da garantire sempre di più l’autosufficienza del centro stesso. Inoltre, in occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ha lanciato una campagna di raccolta fondi per il sostegno dei due centri di accoglienza. “Ringraziamo per il supporto già ricevuto ma vorremmo chiedere un po’ di più al popolo italiano per assicurare il necessario alle vittime che accogliamo quasi continuativamente. – dichiara Fernando Cá, coordinatore di AMIC, in un altro recente video – Anche questa mattina abbiamo accolto due di loro. Le vittime di violenza di genere non mancano mai qui.”

COP28, l’impegno non basta

Le nostre considerazioni al termine della recente COP28.

Si è chiusa il 13 Dicembre a Dubai la 28esima Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite con l’accordo sul global stocktake (la chiusura era prevista il 12 ma la mancanza di un accordo tra i Paesi ha fatto slittare il termine) firmato da 158 Paesi, che menziona l’abbandono dei combustibili fossili entro il 2050. Il testo finale parla di una transizione giusta ed equa dai combustibili fossili.

“Il termine allontanarsi gradualmente non vuol dire nulla di specifico. Più che di un vincolo formale si parla ancora di impegno dei governi anziché di azioni specifiche” afferma Samuel Mue, giovane delegato kenyota dell’AYCA 2023 – Africa Youth Climate Assembly, attivista ambientale e collaboratore di Mani Tese presente a Dubai.

Ma nonostante questo accordo lasci, per tanti aspetti, un senso di amaro in bocca, poiché ancora una volta la politica risulta fragile nelle azioni rispetto a un’esigenza scientifica, tuttavia un segnale importante potrebbe esserci. Dopo un primo momento di forte opposizione da parte dell’Arabia Saudita, grazie a un processo di negoziazione che ha molto insistito sul wording finale, anche i Paesi primi esportatori di combustibili fossili sono dentro l’accordo.

Il Global Stocktake affronta diversi aspetti che pongono numerosi dubbi, forse più scientifici che politici. Si parla di transizione, in modo giusto, ordinato ed equo, per raggiungere lo zero netto entro il 2050 in linea con la scienza, ma non appare nessun termine di rimando ad un processo di sanzioni nel caso di un mancato adempimento dell’accordo. Dopotutto, neanche un giorno dopo, tra il 13 e il 14 dicembre a Bruxelles, i colegislatori UE raggiungono un accordo sulla Corporate Suistainability Due Diligence Directive (CSDDD) che, lasciando fuori gli Accordi di Parigi e la responsabilità civile per le imprese che arrecano danni ambientali, confermano una posizione politica generale pigra e statica. Si parla, inoltre, di un aumento dell’uso delle rinnovabili e di utilizzo del nucleare della cattura del carbonio nei settori più problematici.

Allo stesso tempo, si registra un segnale importante sulla sostenibilità e resilienza dei sistemi agroalimentari. Entra, infatti, nell’agenda politica il sistema agroalimentare, con un impegno inedito per ridurre le emissioni di carbonio nel sistema alimentare globale e soprattutto che riconosce come fondamentale la necessità di politiche agrarie volte alla riduzione delle emissioni e alla costruzione di sistemi agroalimentari orientati a una produzione e consumo più atteni all’ambiente.

“La sfida ora è quella di garantire che queste dichiarazioni si traducano in azioni concrete e misurabili, in un decennio definito cruciale per il nostro pianeta”, afferma Samuel Mue.

Come Mani Tese, noi continueremo a lavorare insieme alle Organizzazioni della Società Civile di tutto il mondo affinché i governi possano trasformare in azioni concrete gli impegni dichiarati.

Per maggiori approfondimenti

https://unfccc.int/topics/global-stocktake

https://unfccc.int/decisions

Raggiunto l’accordo politico sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD)

ACCORDO POLITICO SULLA CORPORATE SUISTAINABLE DUE DILIGENCE DIRECTIVE. Un passo fondamentale ma un’occasione mancata per un cambiamento trasformativo.

Milano, 15 dicembre 2023

Il 14 dicembre 2023 a Bruxelles i colegislatori dell’UE hanno raggiunto un compromesso politico sulle questioni più controverse relative agli standard di condotta aziendale che saranno stabiliti dalla Corporate Suistainability Due Diligence Directive (CSDDD), secondo cui le grandi multinazionali saranno chiamate a fronteggiare le proprie responsabilità in materia di rischi per le persone, le comunità e l’ambiente.

Se da un lato l’accordo determina un importante passo avanti rispetto ad un vincolo normativo di attuazione degli standard internazionali sui diritti umani e ambiente da parte delle grandi imprese, dall’altro sottolinea un dibattito tutt’altro che concluso. Sconcertanti mancanze investono, infatti, i servizi finanziari, esentati dall’applicare la due diligence sui propri clienti, e gli obblighi climatici, esclusi dalla responsabilità civile, sebbene le aziende saranno tenute ad adottare e mettere in atto piani di transizione climatica, (durante la COP28 la presidenza di Dubai annuncia l’approvazione di un accordo internazionale, firmato da 158 paesi, che menziona l’abbandono graduale di tutti i combustibili fossili). Tuttavia, restano fuori dall’ambito normativo gli Accordi di Parigi, nonostante le evidenti responsabilità da parte delle grandi imprese delle emissioni di CO2 in tutto il mondo e, conseguentemente, degli effetti devastanti che colpiscono soprattutto le comunità del Global South.

Nele Mayers, direttrice di ECCJ – European Coalition for Corporate Justice, che da oltre un decennio argomenta attivamente a livello europeo la necessità di norme vincolanti per le grandi imprese, ha dichiarato: “L’accordo è una pietra miliare, ma il viaggio verso la lotta contro l’impunità aziendale non è ancora finito”.

Nonostante le numerose lacune, Mani Tese riconosce l’importanza dell’accordo e proseguirà il suo impegno insieme alle organizzazioni membri della coalizione Campagna Impresa2030 e ECCJ per stimolare la narrazione che porterà al testo finale della CSDDD, promuovendo una proposta volta a colmare le lacune esistenti e ad insistere sulla tutela dei diritti umani e ambientali nel settore privato.

Per approfondimenti

ECCJ

Impresa2030

Doña Veronica e l’orto famigliare agroecologico

Una stufa migliorata, dei semi, delle piante, tanta formazione e buona volontà sono gli ingredienti che hanno reso l’orto famigliare di Dona Veronica un’attività redditizia, realizzata nell’ambito del nostro progetto in Guatemala.

Doña Veronica è una donna della comunità di Muyurcò, nella frazione di El Chorro, in Guatenala, che vive con il marito e con i figli di 16 e 17 anni.  

Per anni, Doña Veronica ha partecipato con costanza e dedizione come destinataria dei progetti di cooperazione realizzati dal partner locale di Mani Tese e, grazie a questo suo impegno, è riuscita, negli anni, a migliorare la propria condizione.  

 

Proprio per la sua dedizione e il suo entusiasmo, Doña Veronica è stata quindi selezionata come beneficiaria di una estufa ahorradora de leña (una stufa a risparmio di legna) nell’ambito del progetto “Lucha contra la desnutricion nel departamento de Chiquimula” (Lotta alla denutrizione nel dipartimento di Chiquimula) promosso da Mani Tese. 

 

La stufa è uno strumento molto importante per combattere l’insorgere di malattie respiratorie, soprattutto nelle donne e nei bambini. Si tratta di malattie, tra l’altro, che rappresentano le principali cause di denutrizione infantile. Questo perché il modo tradizionale di cucinare, in questa zona, prevede l’uso di una piastra, detta “comal”, posta direttamente sul fuoco libero all’interno di luoghi chiusi, dove le persone cucinano e al contempo dormono, che quindi si riempiono di fumi tossici.  

 

Grazie al progetto, Doña Veronica non solo ha ricevuto una stufa a risparmio di legna, ma anche dei semi per il suo orto e delle piante da frutto partecipando con entusiasmo a tutte le formazioni previste dalle nostre attività. 

 

La sua esperienza, unita alla sua grande voglia di lavorare e alla disponibilità di terra fertile di cui dispone, le hanno dato la possibilità di creare un perfetto sistema silvestre agroecologico in cui convivono coltivazioni di mais, caffè, piante da frutto come mango, avocado e arancia, tuberi come la yuca e il camote, e anche piante di ananas.  

La produzione di Doña Veronica si distingue inoltre per i suoi grandi chayote o guisquil, frutti dal sapore e uso simile alla patata, che nascono però da una pianta rampicante. 

 

La dedizione di Doña Veronica ci ha molto colpiti ed è stata un esempio di come sfruttare al meglio le opportunità offerte dal nostro progetto rendendo un orto famigliare una vera e propria attività produttiva redditizia.