Negli ultimi mesi, il percorso legislativo del pacchetto Omnibus I ha proseguito senza tenere conto delle numerose contro-narrazioni che hanno cercato di bloccare la deregolamentazione in atto. Oltre 80 illustri economisti dell’UE, tra cui 13 italiani, hanno lanciato un avvertimento chiaro, definendo il pacchetto come una battuta d’arresto significativa, economicamente infondata e capace di compromettere gravemente la leadership globale dell’UE in materia di sostenibilità e diritti umani. Dalla parte dei cittadini, la maggioranza degli europei conferma l’urgenza di tutelare i diritti umani e l’ambiente: ritengono che le grandi imprese (250 o più dipendenti) debbano essere responsabili dei danni che causano lungo le loro catene del valore. Nel contesto italiano, questa posizione è ancora più netta: l’85% degli intervistati sostiene che le grandi aziende europee e quelle straniere che operano nel mercato europeo debbano essere obbligate per legge a prevenire danni a persone, ambiente e clima, sottolineando quanto sia chiara la richiesta della società civile affinché la politica imponga regole concrete di responsabilità e tutela.
A queste dinamiche di supremazia esercitate dai poteri forti — inizialmente mascherate, ma oggi sempre più esplicite — si affianca un quadro politico altrettanto preoccupante. La maggioranza che sostiene la Commissione Von der Leyen ha infatti contribuito a spostare in modo significativo l’asse politico dell’Unione europea verso destra in diversi ambiti strategici (Green Deal, Sostenibilità d’Impresa ma anche riarmo e approvvigionamento energetico). In questo processo, il ricorso consapevole e reiterato ai voti dei partiti populisti e sovranisti di destra, tradizionalmente e per definizione collocati su posizioni “antieuropeiste”, non appare più come un’eccezione tattica, ma come una scelta politica strutturale. Una dinamica che, al di là delle dichiarazioni di principio, finisce per riflettere e legittimare l’orientamento oggi largamente maggioritario dei governi nazionali all’interno dell’UE, contribuendo a ridefinire in profondità gli equilibri e le priorità del progetto europeo.
Tutti questi elementi, a partire dall’annuncio dell’Omnibus I, si sono susseguiti con una rapidità sorprendente e hanno condotto all’esito del voto di ieri al Parlamento europeo. Un voto che, di fatto, non ha fatto altro che ratificare quanto già emerso nei negoziati del Trilogo politico — anch’essi caratterizzati da tempi insolitamente compressi, appena un mese — e che ha finito per certificare una fragilità strutturale che sta progressivamente erodendo la tenuta politica dell’Unione europea.
Una debolezza che appare tanto più evidente se rapportata alle crisi sistemiche che l’UE è chiamata ad affrontare: dalla guerra in Ucraina al conflitto in Medio Oriente, fino alle crescenti pressioni esercitate dagli Stati Uniti. In questo contesto, la capacità europea di elaborare risposte coerenti e di lungo periodo sembra affievolirsi, lasciando spazio a compromessi di corto respiro. È significativo, infatti, osservare come solo un anno fa il dibattito politico fosse orientato a ripensare il modello di fare impresa, ampliandone prospettive, responsabilità e orizzonti sociali e ambientali. Oggi, al contrario, il baricentro dell’attenzione torna a concentrarsi sempre più frequentemente su casi di violazioni dei diritti umani e su pratiche che arrecano gravi danni all’ambiente. Una regressione che non è casuale, ma che affonda le sue radici in scelte politiche precise, orientate a guardare indietro piuttosto che a costruire una visione europea capace di affrontare le sfide future.
Proprio perché la direttiva nasceva per dare voce a chi subisce gli impatti delle attività economiche e per rendere le imprese realmente responsabili lungo tutta la catena del valore, l’indebolimento del coinvolgimento di lavoratori, comunità e società civile rappresenta un arretramento profondo, poiché allontanare queste voci dai processi decisionali significa perdere il contatto con la realtà dei danni prodotti e ridurre la due diligence a un esercizio formale, incapace di prevenire abusi e ingiustizie; in questo contesto, il recepimento nazionale diventa il vero terreno su cui si gioca il futuro della responsabilità d’impresa in Europa, e risulta quanto mai urgente che anche in Italia, come già avviene nella maggior parte degli Stati membri, il dibattito pubblico e mediatico sia vivo, informato e acceso, poiché solo una discussione ampia e trasparente può spingere governi, imprese e decisori politici a scegliere se trasformare la due diligence in uno strumento efficace di tutela dei diritti umani, dell’ambiente e dell’accesso alla giustizia oppure lasciarla scivolare verso una promessa mancata; in questo quadro, MANI TESE continuerà a impegnarsi, anche attraverso le coalizioni e i network nazionali di cui fa parte, per promuovere un processo di trasposizione della direttiva che sia migliorativo, inclusivo e trasparente, affinché il recepimento nazionale rafforzi concretamente la responsabilità delle imprese e la protezione di chi subisce gli impatti delle loro attività.