NON CHIAMATEMI COOPERANTE

Samuele Tini lavora da anni in Africa per Mani Tese. Dal 2014 è in Kenya, dove ha avviato un progetto di economia circolare per contrastare i cambiamenti climatici.

SAMUELE TINI LAVORA DA ANNI IN AFRICA PER MANI TESE. DAL 2014 È IN KENYA, DOVE HA AVVIATO UN PROGETTO DI ECONOMIA CIRCOLARE PER CONTRASTARE I CAMBIAMENTI CLIMATICI

Diciamolo, l’operato delle ONG non è mai stato così tanto, e spesso così male, sulla bocca di tutti. Quelle che oggi fanno notizia e sono nel mirino del dibattito pubblico sono soprattutto le attività di emergenza umanitaria delle ONG, ma ci sono anche altre azioni, come quelle delle ONG che creano sviluppo nel “Sud del Mondo”. “Noi non salviamo le persone in maniera diretta. Noi le salviamo costruendo sviluppo” mi racconta Samuele Tini, 38 anni, da più di 8 cooperante per Mani Tese “E in un’epoca di poco approfondimento e di molto sensazionalismo, chi fa un lavoro complesso come il nostro, che non si può spiegare in due parole, suscita poco interesse”.

Il tempo per capire

“Bisogna prendersi il tempo per capire” aggiunge. E io oggi voglio prendermi almeno un po’ di tempo per restituire il senso del lavoro di chi, come Samuele, rende possibile l’impossibile in Paesi spesso difficili.

Sono in diretta con lui dal Kenya ma l’intervista comincia in ritardo perché Samuele ha da fare. Ha sempre da fare. “Dovessi timbrare il cartellino credo che oggi avrei accumulato almeno tre mesi di recupero! – scherza Samuele – Io lavoro sempre, anche nei giorni di festa. Il mio lavoro comincia alle 6.30. Spesso vado sul campo per valutare i progressi delle attività di progetto. Altre volte resto in ufficio perché devo occuparmi della gestione amministrativa dei progetti…E poi studio”. Già, lo studio. Si pensa sempre al cooperante come a un lavoro “sul campo”. E in parte è così, in una continua gestione degli imprevisti. Ma per Samuele studiare è altrettanto importante. “Oggi al cooperante sono richieste capacità gestionali sempre più complesse” spiega “A questo si aggiunge la dimensione dello studio e della ricerca che per noi di Mani Tese è fondamentale per proporre idee innovative”.

Energia per il Kenya

Una delle idee apprezzate di Samuele è stata quella di contrastare i devastanti cambiamenti climatici e la deforestazione in Kenya attraverso l’economia circolare. Il progetto IMARISHA! (termine swahili che significa “ENERGIA”) energie rurali per la lotta al cambiamento climatico e la salvaguardia ambientale, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, da lui scritto e implementato prevede una complessità di azioni innovative come la gestione partecipata della foresta Mau – la più vasta estensione forestale del Kenya – la costruzione di vivai per la riforestazione e l’uso dell’energia sostenibile per conservare l’ambiente e per migliorare le condizioni della popolazione locale, come quella degli Ogiek. Inizialmente cacciata dalla foresta, oggi la comunità indigena degli Ogiek, anche grazie all’aiuto di Mani Tese, è diventata la guardiana della foresta Mau e collabora con il servizio forestale kenyano per fermare i disboscatori illegali.

Nel mondo, per cambiarlo

Mentre parliamo l’intervista con Samuele viene interrotta. “Yes, yes” gli sento dire “Sema! (“dimmi” in italiano)”. Sorrido perché me lo immagino, adesso, Samuele. Sempre disponibile, sempre sorridente.

“La vita di un cooperante è così, piena di cose da fare”, si scusa, “da una parte la stretta programmazione delle attività, dall’altra gli imprevisti di chi ha che fare continuamente con diverse situazioni. Adesso per esempio dobbiamo portare i pannelli solari nelle scuole, ma piove (ndr: a causa dei cambiamenti climatici le continue precipitazioni in Kenya stanno creando notevoli disagi), l’auto ha dei problemi Insomma, devi essere sempre pronto a rispondere a ogni evenienza, ad avere una flessibilità elevata e una forte resistenza allo stress”.

E Samuele di stress, nella sua vita, ne ha vissuto parecchio. “Il mio interesse per la cooperazione è iniziato presto – mi racconta – quando ho intrapreso gli studi internazionali. La mia famiglia ha sempre avuto un’attenzione particolare per i diritti degli ultimi e di tutte le persone in difficoltà. Mio nonno era sindacalista, mio padre era impegnato nelle Acli”.

Dopo un primo incarico a Nairobi, Samuele ha lavorato in Tanzania per una compagnia locale facendo nel contempo volontariato per la Comunità Papa Giovanni XXIII, che gli ha permesso di capire il valore della cooperazione internazionale. Poi è partito per il Mozambico collaborando con le ACLI, dove si è occupato di un progetto di costruzione di una scuola che oggi conta più di 600 alunni.

In seguito l’esperienza, durissima, in Sud Sudan per realizzare con i Salesiani delle scuole rurali e un centro di supporto per le donne, dove Samuele ha contratto la malaria celebrale. “Eravamo alloggiati in stanzette grandi come piccolissime celle attorno all’ospedale, in compagnia di scorpioni e con i malati di tubercolosi che ci tossivano accanto per tutta la notte. Durante una di queste, la lamiera del soffitto della mia stanza ha preso fuoco per via del troppo calore”.

In quel Paese percorso da conflitti armati, Samuele “ha imparato a cavarsela” apprendendo a gestire progetti complessi in condizioni dure e con mezzi scarsi.

“Dopo questa esperienza sono partito di nuovo per il Mozambico”. È lì che è avvenuto l’incontro con Mani Tese. “Ho conosciuto Elias e Giovanni di Mani Tese a Maputo. – racconta Samuele – Dopo il nostro incontro, abbiamo iniziato una prima collaborazione in Guinea-Bissau con un progetto sulla pesca. Da quel piccolo progetto, in pochi anni, siamo passati a realizzare progetti più complessi come quello sulla tutela dei diritti e il reinserimento dei detenuti finanziato dalla UE riuscendo inoltre a concludere la realizzazione del mercato di Bubaque”.

Dopo questa esperienza, Mani Tese decide di affidare proprio a Samuele l’incarico di aprire una sede in Kenya. Una presenza, quella nel Paese, molto fruttuosa ma sempre più difficile. “Da anni in Kenya le ONG non sono molto amate. – racconta – Il Paese sta crescendo e l’interesse del Governo è più nei confronti delle imprese. Le ONG sono viste un po’ come ‘rompiscatole’ perché spingono per la difesa dei diritti e per la democratizzazione. Inoltre i pregiudizi nei nostri confronti sono molto forti”.

Sì perché, spiega Samuele, l’odio verso gli stranieri non sta solo a casa nostra ma è generalizzato in tutto il mondo. Per questo motivo, mi dice, “il nostro obiettivo è quello di formare le comunità in modo che siano loro stesse a essere portatrici delle proprie istanze. Ci adoperiamo per formarle e dare loro un reddito e, grazie a questo, avere così il tempo di discutere dei loro problemi e di associarsi per farvi fronte”.

In Africa il futuro del pianeta

Quello del cooperante è un mestiere complesso, che non dà stabilità anzi precariato, che comporta una vita piena di sacrifici ed è difficilmente conciliabile con la famiglia. Samuele, tuttavia, ne ha una in Kenya. “Ho avuto la fortuna di incontrare una persona che ha fatto il mio stesso percorso e che ha accettato di seguirmi in Kenya dedicandosi al volontariato”. Con lei Samuele ha due bambine, di 3 anni e di 3 mesi. “Crescono in un ambiente aperto e multiculturale. La più grande va all’asilo ed è l’unica bambina bianca”.

La domanda, a questo punto, mi viene spontanea: “Samuele, ma chi te lo fa fare di fare il cooperante?”

“Io più che ‘cooperante’ preferisco definirmi un volontario internazionale – risponde – perché mi ricorda la dimensione umana del mio lavoro, quella di essere una persona fra le persone, che sente in ciò che fa un arricchimento reciproco e che fa molto più di ciò che gli è richiesto”.

“E poi è qui, in Africa, che oggi si gioca il futuro del pianeta. Nel 2050 metà della popolazione del mondo sarà in Africa e dobbiamo fare in modo che non vengano commessi gli stessi errori che abbiamo commesso noi occidentali nel nostro processo di crescita. È proprio qui, insomma, che possiamo creare un nuovo modello sostenibile di sviluppo”.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

Foto di Matteo de Mayda

LA COOPERAZIONE GENERA DIRITTI

Consapevolezza dei propri diritti e partecipazione sono i passaggi obbligati per soddisfare i bisogni e costruire sviluppo. L’approccio di Mani Tese con le comunità destinatarie dei suoi progetti.

CONSAPEVOLEZZA DEI PROPRI DIRITTI E PARTECIPAZIONE SONO I PASSAGGI OBBLIGATI PER SODDISFARE I BISOGNI E COSTRUIRE SVILUPPO

“Grazie al guadagno che ricavo dalla vendita del Garì oggi posso pagare la scuola ai miei figli e garantirgli le cure mediche quando sono malati”. Sono diverse le donne che mi hanno ripetuto questa frase nel corso degli anni durante le mie missioni in Benin. Come anche: “Mio marito ora mi tratta diversamente, mi rispetta e supporta le attività di trasformazione della manioca che faccio con il mio gruppo”. Sono, questi, alcuni dei risultati, non previsti “ufficialmente”, dei progetti di cooperazione di Mani Tese degli ultimi anni, che hanno riguardato il rafforzamento dei gruppi di donne impegnate nelle filiere della manioca, arachidi e soia in due comuni del Dipartimento dell’Atacora.

In Kenya, invece, Mani Tese ha promosso, insieme al partner NECOFA, la formazione dei leader di villaggio sul diritto, in quanto cittadini, a presentare le esigenze delle loro comunità presso le istituzioni pubbliche e ad ottenerne risposta: le loro richieste hanno condotto a un finanziamento governativo per la costruzione di una scuola. Sempre nel Paese, Mani Tese ha promosso in quattro scuole secondarie un percorso di educazione civica sugli articoli principali della Costituzione e sull’importanza della partecipazione e del diritto a esprimere il proprio voto, al cui termine sono state realizzate, in ogni scuola, le elezioni dei rappresentati degli studenti secondo la modalità di quelle politiche ufficiali.

Rights based approach: i diritti contano

Si tratta di alcuni esempi di come le attività di cooperazione di Mani Tese impattino sulle comunità in cui opera anche al di là degli obiettivi dei singoli progetti, creando i presupposti per un cambiamento che deriva innanzitutto da un’assunzione di consapevolezza dei propri diritti e della possibilità di agirli.

Il “Rights based approach” è un approccio promosso nell’ambito della cooperazione internazionale che pone al centro di ogni processo di sviluppo umano i diritti. I beneficiari diventano detentori di diritti mentre le istituzioni diventano titolari di doveri, chiamate a risolvere i problemi della popolazione su cui hanno responsabilità. L’intervento di cooperazione si concentra, da un lato, sul rafforzamento delle comunità rispetto al proprio ruolo, ai propri diritti e capacità e, dall’altro, sul rafforzamento delle istituzioni affinché siano in grado di rispondere in maniera adeguata ai bisogni della popolazione. Anche nel linguaggio, la modalità di cooperazione cambia: non si parla più, per fare un esempio, di fame e sete ma di garantire il diritto al cibo e il diritto all’acqua.

Mani Tese, pur non avendo mai abbracciato ufficialmente questo approccio, nei fatti ne assume molte delle caratteristiche. Da sempre, infatti, lavora a fianco della società civile concentrandosi più sulle comunità (i detentori dei diritti) che le istituzioni pubbliche, sebbene recentemente, in alcuni Paesi africani, si stiano avviando collaborazioni anche con il settore pubblico.

Nel lavoro con le comunità, due sono i principi che Mani Tese applica con un approccio basato sui diritti: la partecipazione e l’ownership. Le comunità sono sempre al centro del progetto, vengono consultate fin dalla fase di analisi dei problemi e dell’individuazione delle possibili soluzioni per poi partecipare, da protagoniste, all’esecuzione dell’intervento. Per questo motivo, una parte consistente dei progetti è costituita dalla formazione, per permettere alle persone coinvolte di acquisire le competenze e le capacità per poter poi realizzare esse stesse il progetto. Per dare ulteriormente valore al loro protagonismo, spesso alle comunità si richiede anche una partecipazione finanziaria o materiale.

Ogni progetto appartiene alla comunità

Il principio sui cui si basa questo approccio è che il progetto appartenga prima di tutto alle comunità che ne beneficiano perché, tramite esso, possano costruire il proprio futuro. Un aspetto tutt’altro che scontato poiché la cooperazione, negli anni, ha adottato un approccio cosiddetto caritatevole, dove l’importante era soddisfare i bisogni senza pensare al processo con cui si arrivava al risultato, senza promuovere ownership e sostenibilità e senza che l’intervento si traducesse in consapevolezza dei propri diritti da parte delle comunità coinvolte.

Una delle esperienze più significative di Mani Tese, in questo senso, è proprio nel settore storicamente più importante per l’ONG: quello del cibo e della sua produzione. Un ambito che veniva chiamato, negli anni ’60 e ’70, lotta alla fame e diventato, nei decenni successivi, sicurezza alimentare. Più di recente, Mani Tese ha scelto di fare proprio il concetto di sovranità alimentare. Nel passaggio tra sicurezza e sovranità alimentare è esemplificato quello da un approccio caritatevole a uno basato sui diritti: mentre per la sicurezza alimentare l’importante è che tutti abbiano sufficiente cibo per una vita dignitosa (non importa né da dove questo cibo provenga né di che tipo sia), nella sovranità alimentare il cibo diventa un diritto e sono le comunità a scegliere cosa produrre, come, quando e dove e di conseguenza come nutrirsi. Da questo, si sviluppano ulteriori diritti come quello alla terra, alla possibilità di prodursi e/o di scegliersi le sementi, alle modalità con cui associarsi, non solo per scegliere cosa produrre ma anche per rivendicare i propri diritti.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

 

200 VOLTE UCCISI IN DIFESA DEI DIRITTI

Il prezzo più alto lo pagano gli indigeni che combattono l’agribusiness, ma sono sempre di più i Paesi
dove gli attivisti vengono minacciati, intimiditi o vessati. La campagna “In difesa di”, di cui Mani Tese è partner,
lavora per un network internazionale che rafforzi queste battaglie e chi le conduce.

di FRANCESCO MARTONE, Portavoce “In difesa di”

IL PREZZO PIÙ ALTO LO PAGANO GLI INDIGENI CHE COMBATTONO L’AGRIBUSINESS, MA SONO SEMPRE DI PIÙ I PAESI DOVE GLI ATTIVISTI VENGONO MINACCIATI, INTIMIDITI O VESSATI. LA CAMPAGNA “IN DIFESA DI”, DI CUI MANI TESE È PARTNER, LAVORA PER UN NETWORK INTERNAZIONALE CHE RAFFORZI QUESTE BATTAGLIE E CHI LE CONDUCE.

Oltre 200 difensori e difensore dei diritti umani uccisi lo scorso anno principalmente per essersi opposti all’espansione delle attività di imprese del settore dell’agribusiness o dell’estrazione di risorse naturali. La maggior parte di loro erano leader indigeni e indigene, principalmente in quattro Paesi: Brasile, Colombia, Honduras e Filippine. Sono la punta dell’iceberg di una guerra nascosta, sotterranea, contro i difensori e le difensore dei diritti umani. Cifre allarmanti che nascondono una realtà assai più preoccupante e complessa, in cui a migliaia in ogni parte del mondo soffrono per la loro attività a protezione dei diritti umani. Vessati, criminalizzati, perseguitati, minacciati non solo dagli apparati statali e da governi conniventi, ma anche da formazioni paramilitari (si veda il caso della Colombia post accordi di pace), forze di sicurezza private al soldo di imprese multinazionali o dall’avanzata di formazioni politiche xenofobe, razziste e autoritarie. Una situazione che chiama a un rilancio delle iniziative per la difesa e la protezione dei difensori dei diritti umani, assieme a un riesame critico della cornice di riferimento, dei modelli di intervento e delle forme di solidarietà.

Il futuro dei diritti (e di chi li difende)

Temi che sono stati al centro della tre giorni di lavoro per i 150 difensori e difensore dei diritti umani e le centinaia di partecipanti alla Conferenza Globale sui Difensori Dei Diritti Umani, tenutasi a Parigi a fine ottobre. Accanto alle testimonianze dirette di difensori e difensore da ogni parte del mondo, ci si è interrogati sulle sfide future a vent’anni dall’adozione alle Nazioni Unite della Dichiarazione sui Difensori dei Diritti Umani. Un’occasione quindi per un bilancio e per rilanciare le vertenze e le alleanze globali, tra donne difensore, tra organizzazioni indigene, per la difesa dei diritti civili e LGBTI in primis. Si è parlato molto di come contestualizzare il lavoro di protezione nella cornice più ampia di creazione di reti e modelli di cooperazione trasversale, superando la logica della ripartizione di vertenze su base tematica. E soprattutto di dotare le reti che lavorano in sostegno ai difensori dei diritti umani di una serie di strumenti di analisi politica del contesto attuale, necessari per creare connessioni e relazioni tra le varie iniziative in corso. Tutte considerazioni che sono state sin dall’inizio parte dell’approccio che sta caratterizzando il lavoro in Italia della rete In Difesa di – per i diritti umani e chi li difende, di cui Mani Tese è parte integrante, sia a livello nazionale che partecipando al lavoro del “nodo” locale della rete a Milano, attivo verso l’amministrazione comunale per la promozione della proposta di creazione di un programma di accoglienza temporanea per difensori dei diritti umani a rischio. Proprio quest’anno, in concomitanza con il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani, la presidenza italiana dell’OSCE (che terrà il suo vertice ministeriale a Milano ai primi di dicembre) e la candidatura italiana al seggio triennale del Consiglio ONU sui Diritti Umani, la rete ha intensificato le sue iniziative di informazione e advocacy. Da una parte ci si è concentrati sulla Farnesina, ossia sulla leva “diplomatica”, attraverso incontri con difensori dei diritti umani, e scambio di informazioni e proposte su buone pratiche per la protezione dei difensori. Un percorso che ha portato all’assunzione del tema dei difensori dei diritti umani come uno degli impegni presi per corroborare la candidatura dell’Italia al Consiglio ONU. Candidatura cui è seguita poi l’elezione a metà ottobre.

Le città rifugio

Oggi quindi il tema della protezione dei difensori dei diritti umani, del dialogo con la società civile e del supporto alle iniziative e attività del Relatore Speciale ONU sui Difensori dei Diritti Umani (attualmente Michel Forst) sono parte del pacchetto programmatico con il quale l’Italia è presente al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Al momento la rete ha una serie di canali di lavoro con l’ufficio diritti umani della Farnesina e con la Direzione Generale per l’America Latina e il Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, e ci proponiamo di aprire un tavolo su Medio Oriente e Mediterraneo. Al contempo abbiamo rivolto la nostra attenzione al lavoro del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani e in particolare al Piano di Azione Nazionale su Imprese e Diritti Umani. In occasione della revisione del  Piano, sono state formulate proposte, in buona parte accolte, sulle responsabilità delle imprese nel riconoscere e tutelare il ruolo dei difensori dei diritti umani in linea con quanto raccomandato nei rapporti sul tema prodotti dal Relatore Speciale ONU Michel Forst. L’ambito nel quale la rete ha conseguito obiettivi più concreti riguarda il lancio di un piano pilota di “shelter cities” che possano accogliere temporaneamente, se necessario, e comunque accompagnare il lavoro di difensori e difensore, e delle loro comunità ed associazioni. Trento e Padova a vario livello sono incamminate verso la formalizzazione di un programma di accompagnamento e, se necessario, di accoglienza temporanea di difensori e difensore, mentre Milano e altre amministrazioni stanno prendendo in considerazione la possibilità di seguire l’esempio. Impegni a livello ONU, canali di dialogo con il MAECI, programmi di “shelter cities” e linee guida per le imprese sono parte di una “cassetta degli attrezzi” che la rete utilizzerà e metterà a disposizione delle organizzazioni della società civile e dei movimenti sociali in Italia e a livello internazionale dal prossimo anno. Parallelamente continueremo a dare sostegno a chi difende i diritti umani nel nostro Paese, in primis i difensori dei diritti dei migranti e chi viene accusato di crimini di solidarietà. Temi sui quali la rete ha lavorato, ad esempio partecipando al lancio e diffusione in Italia, al Festival SABIR di Palermo, del recente rapporto del Transnational Institute e informando costantemente i relatori speciali ONU sui migranti e i difensori dei diritti umani in merito alla situazione nel nostro Paese.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2018 del Giornale di Mani Tese

RIACE PREMIO NOBEL PER LA PACE

Anche Mani Tese aderisce alla campagna Riace premio Nobel per la Pace. Restano ancora poche ore per firmare: la raccolta di firme di persone, personalità, istituzioni ed associazioni per proporre la candidatura di Riace e del suo modello di accoglienza a Premio Nobel per la Pace 2019 si concluderà infatti il 30 gennaio…Firma anche tu attraverso uno […]

Anche Mani Tese aderisce alla campagna Riace premio Nobel per la Pace.

Restano ancora poche ore per firmare: la raccolta di firme di persone, personalità, istituzioni ed associazioni per proporre la candidatura di Riace e del suo modello di accoglienza a Premio Nobel per la Pace 2019 si concluderà infatti il 30 gennaio…Firma anche tu attraverso uno dei moduli che trovi sotto le descrizione della campagna!

Il 30 gennaio 2019 alle ore 12.00 si terrà la conferenza stampa di chiusura della campagna presso la sede del settimanale Left a Roma, in via Ludovico di Savoia 2/b, nella quale sarà presente Mimmo Lucano.

Di seguito la descrizione della campagna:

NOBEL PER LA PACE A RIACE

Siamo una rete di organizzazioni della società civile, NGO e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la Pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni.

Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attività che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.

Nel 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.

Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.

Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

La candidatura può essere proposta sottoscrivendo l’apposito modulo da:

– da professori universitari con cattedra in storia, scienze sociali, giurisprudenza, filosofia, teologia; da rettori universitari e direttori di istituti di ricerca sulla pace o sulla politica estera: https://goo.gl/forms/FUPzMH7okIvcOzkm1

– da parlamentari: https://docs.google.com/forms/d/18Hpi_yTuZdZHC8l1Ux1zkYw8B0XtFER57856tpvUqP8/viewform?edit_requested=true

– da organizzazioni: https://drive.google.com/open?id=1XAMQJQAbP0mEgkqvBmIbXQWqfcAQClwSsXMNGuyfP-0

– da persone singole: https://drive.google.com/open?id=1mBGI0d5DsfOgMG3g2FR_sfAha1At1G68maqySAWsXW0

Il Comitato Promotore

Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano.

“Jacky Può”, il sito per imparare l’economia divertendosi!

Un sito interattivo dedicato ai ragazzi per diventare cittadini senza paura dell’economia superando l’analfabetismo economico

È on line il portale educativo interattivo “Jacky Può (E chi non può è il suo sottotitolo) dedicato ai ragazzi dai 14 ai 19 anni, ideato da Mani Tese in collaborazione con ActionAid, Fondazione Finanza Etica, Oxfam e WWF e con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

Ragazzi a rischio di analfabetismo economico

Gli studenti nella fascia 14-19 anni sono a rischio di analfabetismo economico, dal momento che la loro alfabetizzazione economica avviene (se avviene) fuori dalla scuola, nei contesti educativi informali.

Secondo una ricerca internazionale di ING Direct realizzata da TNS Nipo, il 46% degli italiani non ha una formazione specifica in ambito economico, nonostante l’economia sia al centro della vita quotidiana di tutti.
Tra i cittadini che sostengono di avere ricevuto una preparazione in ambito economico e finanziario, solamente nel 18% dei casi ciò è avvenuto nell’ambito della scuola secondaria, l’11% ha intrapreso degli studi universitari economici, mentre ben il 25% è completamente autodidatta: ha acquisito conoscenze leggendo libri (16%) e informandosi attraverso internet, quotidiani o riviste e programmi televisivi (9%).
Solo una persona su cinque, in sostanza, dichiara di aver sentito parlare di economia a scuola, esclusa l’università.

Una preparazione parziale e insufficiente

Le fonti di apprendimento non scolastiche offrono in maniera pressoché univoca lo stesso punto di vista, basato sulla concezione di homo economicus, contribuendo a convincere che può esistere un solo tipo di economia” dichiara Giacomo Petitti, Responsabile Educazione e Formazione di Mani Tese.
Definito per la prima volta da Adam Smith e ulteriormente sviluppato da John Stuart Mill, l’uomo economico razionale è uno degli assunti su cui si basano i modelli che hanno dato vita al sistema economico dominante.

L’homo economicus, tuttavia, ha limiti notevoli – prosegue Petittiperseguendo come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere, non prende in considerazione la complessità delle relazioni e dell’ambiente nel quale è immerso. Agisce in modo individualistico secondo ciò che più gli conviene, senza considerare che il proprio benessere è determinato anche dal buon funzionamento della comunità di cui fa parte e dalla salute dell’ambiente che lo circonda”.

Il portale Jackypuò

Il portale Jacky Può (www.jackypuo.itè un sito educativo e interattivo pensato per i ragazzi dai 14 ai 19 anni, che parte proprio dall’analisi e dalla decostruzione dell’homo economicus.
Valigetta, carte di credito e macchina sportiva, circondato da banconote e vestito in modo impeccabile: Jackypuò è la caricatura dell’uomo economico razionale, né così vera da incoraggiare l’identificazione, né così lontana dalla realtà da metterla in ridicolo con troppa leggerezza.

Il percorso didattico, pensato soprattutto per le classi con l’accompagnamento dell’insegnante o dell’educatore (a cui il portale dedica una guida specifica), permette ai ragazzi di prendere consapevolezza del modello che Jacky può rappresenta per poi smontarlo e provare a ricostruirlo.

Il portale Jackypuò – racconta Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese è un’iniziativa che rientra nel progetto ‘New Business for Good. Educare, informare e collaborare per un nuovo modo di fare impresa’ co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che intende favorire la consapevolezza, soprattutto da parte dei giovani, sui vizi del ‘business as usual’ nella costruzione di un futuro sostenibile e sulle virtù dei nuovi modelli d’impresa fondati sull’etica, l’ecologia e l’inclusività”.

“Se la società è multidimensionale, per comprenderla bisogna imparare a pensare in modo sistemico costruendo ponti e collegamenti tra i saperi – aggiunge Giacomo Petitti, Responsabile Educazione e Formazione di Mani Tese Solo così sarà possibile insegnare agli studenti a sapersi relazionare con gli altri, a riconoscere i propri limiti, a rispettare e saper mettere in discussione le regole, ma soprattutto a immaginarsi nel futuro. Altrimenti a vincere sarà la paura di quello che non capiamo, di ciò che è diverso da noi, delle cose troppo difficili. E invece di una società globale che immagina nuove soluzioni per vivere senza distruggere il pianeta, avremo cresciuto una generazione di cittadini spaventati e frustrati, incapaci di formulare un’opinione superiore ai 160 caratteri”.

Guarda il portale

https://manitese.it/wp-content/uploads/2019/01/jackypuò-cover.jpg

IL FRANCO CFA E LE MIGRAZIONI DALL’AFRICA: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA!

La Presidente di Mani Tese: “I Paesi di maggiore provenienza dei migranti in Europa non sono quelli in cui è in vigore il Franco CFA”.

di Sara de Simone, Presidente di Mani Tese

In teoria dovremmo rallegrarci: due personaggi di spicco della politica italiana hanno identificato nelle politiche coloniali di alcuni Paesi europei le cause delle migrazioni. Potrebbe sembrare che sia un primo passo per uscire da un’ottica emergenziale e guardare alle cause più strutturali e profonde del fenomeno, un modo per non parlare più solo di soluzioni securitarie ma di guardare al quadro complessivo.

Purtroppo, però, non lo è: il colonialismo e il neocolonialismo possono sicuramente essere una delle spiegazioni delle cause delle migrazioni, ma il Franco CFA ha ben poco a che vedere con la questione. Come spiega bene un articolo pubblicato da il Post, Il Franco della Communauté Financière Africaine (CFA) è la moneta unica introdotta nel 1945 nelle colonie francesi dell’Africa occidentale e gestita dalla Banca centrale francese che assicura un cambio fisso con l’euro. Se è vero che rappresenta uno strumento di forte limitazione della sovranità dei 14 Paesi che lo utilizzano e che i suoi benefici ricadono principalmente sulle élite, il suo utilizzo ha ben poco a che vedere con l’emigrazione: basti pensare che i Paesi di maggiore provenienza dei migranti in Europa non sono affatto quelli in cui è in vigore il Franco CFA.

Le cause delle migrazioni sono molteplici e complesse: riguardano ad esempio la pressione demografica esercitata da popolazioni molto giovani in Paesi in cui la disoccupazione giovanile raggiunge livelli molto elevati (ad esempio la Tunisia o la Nigeria). Anche in paesi in cui la disoccupazione non è così alta, i livelli salariali sono spesso molto bassi e insufficienti a garantire un tenore di vita decente (ma utili alle multinazionali che scelgono di produrre in Bangladesh o Pakistan, ad esempio, abbattendo il costo del lavoro). Oppure riguardano situazioni di instabilità politica o di conflitto, in cui regimi autoritari riescono a mantenere il potere attraverso politiche repressive e predatorie, spesso col sostegno della comunità internazionale che li considera i custodi della stabilità internazionale o regionale (è il caso, ad esempio, dell’Egitto o del Sudan).

Il (neo)colonialismo insomma c’entra, ma in modo molto diverso e più complesso che per le questioni di politica monetaria. Come abbiamo spiegato nel nostro documento di posizionamento sulle migrazioni, il problema sta nelle modalità predatorie con cui le risorse di molti Paesi africani sono state, e continuano a essere, sfruttate da parte di attori pubblici e privati europei (e non), e nel modo in cui oggi si affronta la questione migratoria con un approccio unicamente securitario e repressivo.

Per approfondire:
Leggi il nostro dossier sulle migrazioni

HANNA, CONTADINA DEL KENYA: “ECCO COME IL BIOGAS MI HA CAMBIATO LA VITA”

La testimonianza di Hanna, contadina di Gakonya (Kenya) e beneficiaria del progetto “Imarisha!” riguardo al suo impianto a biogas.

Per Hanna Wanja, una contadina di 43 anni, che vive nel villaggio di Gakonya, in Kenya, cucinare per la propria famiglia non è certo un compito semplice, soprattutto quando tutti sono a casa per le vacanze o per riunirsi. La famiglia di Hanna, infatti, conta ben undici membri: il suo figlio più grande ha 31 anni, il più piccolo 7.

Oltre che faticoso, per la signora Wanja cucinare era oneroso anche dal punto di vista economico: per comprare la legna da ardere necessaria ad accendere I fornelli, ogni mese Hanna spendeva 4.000 scellini, ossia circa 40€. Una cifra sostanziosa per una famiglia il cui reddito dipende totalmente dalla fattoria di cui Hanna si occupa insieme al marito.

Tutto è cambiato quando la famiglia di Hanna è stata inserita nel circuito di ingrasso dei suini del progetto Imarisha, cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo, e ha beneficiato di un impianto a biogas, uno degli strumenti previsti dal progetto per promuovere le energie rinnovabili e la sostenibilità ambientale.

Da quando Hanna usa il biogas per cucinare, la spesa per il combustibile si è ridotta di oltre il 75%: oggi la famiglia spende meno di 800 scellini (circa 8 euro) al mese!

Per imparare a usare il nuovo impianto, Hanna è stata formata dalla ditta che lo ha installato e dal personale del progetto, che continua a seguire la famiglia quotidianamente. Il funzionamento, come spiega Hanna stessa, non è molto complesso: “Questo sistema di biogas è il più facile da usare, devo solo inserire due grossi secchi di deiezioni suine al giorno, aggiungere acqua e controllare che il sistema sia al sicuro da interferenze esterne e da eventuali possibili danni. E’ tutto! Il sistema lavora in automatico e io raccolgo anche il sottoprodotto che uso per fertilizzare il mio giardino”.

Infatti, oltre a fornire energia continua, sicura, pulita, veloce e a bassissimo costo, il biogas assicura anche concime organico per l’orto. Così, il biogas ha migliorato la vita della famiglia di Hanna in modo considerevole, permettendole di risparmiare tempo e denaro che ora possono essere investiti in altre attività nella fattoria.

“Il biogas e la legna non sono comparabili – sostiene Hanna – La legna o il carbone  sono cari, sporchi e distruggono il nostro ambiente. Il biogas è pulito, amico dell’ambiente ed è gratis!”

Hanna è così soddisfatta del suo impianto che è diventata ambasciatrice del progetto nel villaggio. Sta convincendo molte persone a entrare nel sistema di ingrasso dei maiali e ad installare un impianto a biogas. Il suo sogno è che ogni famiglia abbia il proprio impianto, “per avere una vita migliore e salvaguardare il nostro ambiente”.

Nuovi muri, nuovi schiavi: il convegno per la giornata mondiale contro la tratta

Il convegno su migranti, tratta e moderne schiavitù promosso da Pime, Mani Tese e Caritas Ambrosiana con con Ucsi Lombardia e Fesmi e il contributo di AICS

Nel mondo, sono oltre 40 milioni i nuovi schiavi. E sono sempre di più i nuovi muri. Muri reali e simbolici che contribuiscono a creare – anche in Italia – maggiore insicurezza delle migrazioni e costringono le persone ad affidarsi a intermediari pericolosi, esponendole al rischio di traffico di esseri umani e di gravi forme di sfruttamento.

Anche quest’anno, in occasione della Giornata mondiale contro la tratta (8 febbraio 2019), il Centro Pime di Milano, Mani Tese e Caritas Ambrosiana organizzano, con il contributo di AICS – Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e la collaborazione di Ucsi Lombardia e Fesmi, un convegno sul tema.

NUOVI MURI, NUOVI SCHIAVI” è il titolo dell’evento che parlerà di migranti, tratta e schiavitù moderne (anche alla luce della Carta di Roma) e si terrà l’8 febbraio 2019 presso il centro PIME di Milano in Via Mosè Bianchi 94.

La prima parte del convegno sarà dedicata a interventi di approfondimento. Aprirà l’evento Antonio Maria Costa, ex vice segretario generale Onu e direttore Ufficio Onu droga e crimine, Unodc (2002-2010) che tratterà il tema della tratta e della schiavitù nel XXI secolo. A seguire il Prof. Marco A. Quiroz Vitale, sociologo del diritto Università di Milano, autore di “Diritti umani e cultura giuridica” affronterà i diritti umani negati mentre il Prof. Marco Valbruzzi, politologo Università di Bologna e coordinatore Istituto Cattaneo, parlerà di propaganda e della Carta di Roma.

La seconda parte del convegno sarà dedicata a tre casi emblematici di sfruttamento nel mondo con René Manenti, Scalabriniani della Casa del Migrante di Tijuana (Messico), Laudolino Carlos Medina di Associaçào dos Amigos da Criança (AMIC), Guinea-Bissau (Africa Occidentale) e Virginia Sabbatini del Progetto Presidio Caritas Italiana, grave sfruttamento lavorativo, Saluzzo (Italia).

Nel pomeriggio si terranno tre laboratori su iscrizione dedicati agli insegnanti:

  • Lavoravo a strada: la tratta per lo sfruttamento sessuale in Italia oggi
  • Schiavitù moderne, come parlarne in classe e perché
  • Migrazioni e intercultura, come parlarne in classe e perché

Pime, Mani Tese e Caritas Ambrosiana operano in contesti diversi per la prevenzione del traffico di esseri umani e la protezione delle vittime.

«Il Pime è presente in diversi Paesi di origine e transito delle vittime di tratta – spiega padre Mario Ghezzi, direttore del Centro di cultura e animazione missionaria Pime di Milano, recentemente rientrato in Italia dopo 18 anni in Cambogia -. Il nostro principale impegno è nell’ambito dell’educazione e della sensibilizzazione per cercare di prevenire la partenza di giovani senza prospettive e senza progetti migratori mirati, che li spingono quasi inevitabilmente nelle mani di trafficanti e sfruttatori. Grazie alla nostra rete di missionari e volontari, in diversi Paesi d’Africa, Asia e America Latina, e grazie al sostegno di molti amici e benefattori qui in Italia, cerchiamo di promuove istruzione e sviluppo, specialmente nei luoghi più poveri e abbandonati, e di offrire così ai giovani opportunità di vita dignitosa e prospettive di futuro».

Mani Tese nel 2016 ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “I EXIST – say no to modern slavery” per prevenire e contrastare le cause della schiavitù moderna, nell’ambito della quale ha promosso iniziative di sensibilizzazione e avviato progetti in India, Bangladesh, Cambogia e Nicaragua a sostegno delle vittime di lavoro minorile, trafficking e sfruttamento lungo le filiere produttive. Dal 2017 ha avviato in Guinea-Bissau una collaborazione con AMIC per strutturare e rafforzare il sistema di protezione per donne e minorenni vittime di violenza, in particolare di matrimonio forzato e/o precoce, all’interno della casa rifugio gestita dall’associazione, e per migliorare il sistema di prima accoglienza e re-inserimento di minori talibè rimpatriati dal Senegal.

Caritas Ambrosiana aiuta sul territorio della diocesi di Milano le vittime di tratta ad abbandonare la strada offrendo alloggi protetti e percorsi di integrazione sociale. Il progetto Presidio sostenuto da Caritas Italiana offre ai lavoratori impiegati nel settore agricolo e in evidente condizione di sfruttamento, un luogo di ascolto, di orientamento e di tutela rispetto alla loro situazione giuridica, sanitaria e lavorativa. Le tredici diocesi che aderiscono al progetto sono Saluzzo, Latina, Aversa, Capua, Caserta, Teggiano, Manfredonia, Cerignola, San Severo, Foggia, Nardò, Ragusa, Noto.

Il convegno è aperto a tutti. Ingresso libero.
Il convegno è accreditato per la formazione permanente di giornalisti, assistenti sociali e insegnanti (MIUR)
Iscrizioni: giornalisti: SIGEF
Insegnanti: https://goo.gl/forms/hG1yd6WOJptUo92q2
Assistenti sociali: https://goo.gl/NHwnY3

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