Omnibus I: la semplificazione che tradisce diritti, clima e filiere globali

Il pacchetto Omnibus I è stato approvato il 16 dicembre 2025 dal Parlamento europeo. Un arretramento che incide su tutela dei diritti, accesso alla giustizia e credibilità dell’Unione.

di Elisa Lenhard

Novembre 2025. Un rapporto dell’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) e del National Trade Union Federation of Pakistan (NTUF) denuncia gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche tessili di Karachi che riforniscono grandi marchi internazionali. Salari minimi non pagati, straordinari ignorati, contratti assenti e repressione dell’attività sindacale: è questo il quadro emerso dall’indagine sul campo.

Febbraio 2025. Un rapporto del Business & Human Rights Resource Centre mette sotto accusa centinaia di grandi aziende per abusi su lavoratori migranti nel 2024. Furti di salario, condizioni di lavoro insicure, pratiche di reclutamento scorrette e decine di morti o incidenti gravi nei settori della costruzione, dei servizi pubblici e della manifattura

Dicembre 2025. La Procura di Milano porta alla luce sfruttamenti nei sub-appalti dei fornitori di marchi di lusso e alta moda. Operai ridotti a condizioni di lavoro degradanti e violazioni diffuse del diritto del lavoro rivelano le falle nei controlli lungo l’intera filiera produttiva.

L’elenco potrebbe essere infinito, e racconta un preciso modello di fare impresa, centrato esclusivamente sul profitto immediato e sulla massimizzazione dei margini a scapito dei diritti fondamentali dei lavoratori e lavoratrici e dell’ambiente. Il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, da sempre sostenitore di un approccio economico fondato sulla giustizia sociale e sulla responsabilità delle imprese, ha più volte sottolineato che la vera prosperità economica non può prescindere dal rispetto dei diritti umani e dalla dignità del lavoro.

Proprio in questa prospettiva si colloca la Direttiva Europea sulla Dovuta Diligenza in materia di diritti umani e ambientali delle imprese – la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) – nella sua formulazione originaria, approvata a fine maggio 2024 al termine di un iter legislativo lungo e complesso, segnato da articolate dinamiche politiche. Pubblicata successivamente in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 5 luglio, la Direttiva, nel biennio previsto per il recepimento da parte degli Stati membri, avrebbe potuto rappresentare un punto di svolta nella concezione stessa dell’attività d’impresa, aprendo un dibattito strutturale su un necessario cambio di paradigma, proponendosi come un motore di cambiamento concreto capace di coniugare competitività e rispetto dei diritti. Sebbene in parte annacquata in alcuni dei suoi passaggi più incisivi, la CSDDD, in generale, introduceva obblighi di prevenzione e mitigazione dei rischi lungo l’intera catena di fornitura, riconosceva il ruolo dei lavoratori e delle lavoratrici nonché delle organizzazioni sindacali nella verifica delle condizioni di lavoro e poneva le basi per un nuovo equilibrio tra profitto e responsabilità sociale (alcune grandi aziende avevano già avviato percorsi di adeguamento, iniziando a organizzarsi concretamente per favorire un approccio basato sulla trasparenza e sulla responsabilità).

A minare questo quadro interviene, però, il voto di ieri 16 Dicembre del Parlamento Europeo, sul pacchetto Omnibus I, che di fatto arretra su diversi punti cardine della Direttiva approvata solo pochi mesi prima. Presentato nel febbraio 2025, il provvedimento nasce nel solco delle riflessioni avviate dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che già l’8 novembre 2024, durante la conferenza stampa di Budapest successiva alla pubblicazione del Rapporto Draghi, aveva delineato l’immagine di un’Europa in difficoltà: schiacciata tra la competitività degli Stati Uniti e quella della Cina e in ritardo su crescita, produttività e innovazione. In questo contesto, l’Omnibus I viene fin dall’inizio presentato come uno strumento chiave per rilanciare la competitività delle imprese europee, costruito attorno al tema della semplificazione.

Secondo la narrazione ufficiale, infatti, l’Omnibus I nasce con l’obiettivo di ridurre gli oneri amministrativi, armonizzare gli obblighi normativi e rendere più agevole l’attività delle imprese in un contesto economico globale sempre più competitivo. Una risposta, dunque, alle pressioni del mondo produttivo e alle difficoltà segnalate soprattutto dalle grandi aziende multinazionali nel conformarsi al crescente corpus normativo europeo. Tuttavia, già dalle prime bozze e dalle dichiarazioni che accompagnano la proposta, appare evidente come dietro il richiamo alla semplificazione si celi una chiara volontà di deregolamentazione.

Il voto di ieri sancisce un insieme di interventi che, letti nel loro complesso, rappresentano un’occasione mancata per orientare i modelli di impresa verso una reale tutela delle persone e dei diritti umani, delineando un modello in cui la sostenibilità viene progressivamente ridotta a strumento di gestione del rischio, più che di trasformazione. Tra i cambiamenti più significativi, rispetto al testo originale uscito in Gazzetta a luglio 2024, vi è l’arretramento sul fronte dei piani climatici: la rimozione dell’obbligo esplicito nella direttiva sulla Due Diligence ridimensiona la transizione climatica come responsabilità diretta delle imprese. Il tema non scompare dall’ordinamento europeo, ma viene affidato a strumenti meno vincolanti, perdendo centralità nella valutazione della condotta aziendale lungo la catena del valore e assumendo un carattere prevalentemente dichiarativo.

Anche la disciplina della responsabilità civile viene sensibilmente indebolita. Il nuovo impianto limita i casi in cui le imprese possono essere chiamate a rispondere di danni sociali o ambientali, soprattutto quando non qualificati come “prioritari”. Ne deriva una selezione preventiva degli impatti rilevanti, con effetti diretti sull’accesso alla giustizia: per le vittime di violazioni diventa più difficile ottenere riconoscimento e riparazione, trasferendo l’onere della prova su soggetti spesso fragili, come lavoratori e lavoratrici e comunità nelle catene globali di fornitura.

Un’ulteriore discontinuità riguarda i rapporti con i partner commerciali. L’eliminazione dell’obbligo di interrompere le relazioni in presenza di violazioni gravi favorisce una logica di compromesso, che consente la prosecuzione dei rapporti economici sulla base di impegni correttivi, anche in assenza di risultati concreti, privilegiando la stabilità del mercato rispetto a una tutela effettiva dei diritti e dell’ambiente.

Il risultato finale arriva dopo mesi che hanno caratterizzato un iter legislativo segnato da tempi particolarmente rapidi e da un processo decisionale percepito come poco inclusivo, con spazi limitati di confronto tra tutte le parti interessate, frequenti incontri a porte chiuse e una crescente influenza esercitata dalle grandi lobby industriali. In questo contesto, le richieste di interlocuzione provenienti dalla società civile, mobilitatasi fin dall’inizio per difendere l’impianto della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), sono rimaste in larga parte marginali. Il risultato è l’impressione diffusa che, sotto pressioni più o meno esplicite, l’Unione europea abbia sacrificato elementi centrali del proprio quadro normativo sull’altare della deregolamentazione, alimentando interrogativi sulla sua capacità di tenuta politica.

Su questo scenario si innestano anche pressioni esterne. Il 22 ottobre 2025 Stati Uniti e Qatar hanno indirizzato una lettera aperta, firmata dal Ministro qatariota per gli Affari energetici Saad Sherida al-Kaabi e dal Segretario all’Energia statunitense Chris Wright, ai leader degli Stati membri dell’UE dove si paventavano conseguenze significative sulle relazioni commerciali e sulla sicurezza energetica europea qualora la CSDDD non venisse abrogata o profondamente ridimensionata. Posizioni analoghe sono state espresse anche da rappresentanti diplomatici statunitensi presso l’UE, secondo cui la CSDDD rischierebbe di ostacolare l’accesso a fonti energetiche considerate affidabili e competitive, come il gas naturale liquefatto proveniente dai Paesi alleati.

Negli ultimi mesi, il percorso legislativo del pacchetto Omnibus I ha proseguito senza tenere conto delle numerose contro-narrazioni che hanno cercato di bloccare la deregolamentazione in atto. Oltre 80 illustri economisti dell’UE, tra cui 13 italiani, hanno lanciato un avvertimento chiaro, definendo il pacchetto come una battuta d’arresto significativa, economicamente infondata e capace di compromettere gravemente la leadership globale dell’UE in materia di sostenibilità e diritti umani. Dalla parte dei cittadini, la maggioranza degli europei conferma l’urgenza di tutelare i diritti umani e l’ambiente: ritengono che le grandi imprese (250 o più dipendenti) debbano essere responsabili dei danni che causano lungo le loro catene del valore. Nel contesto italiano, questa posizione è ancora più netta: l’85% degli intervistati sostiene che le grandi aziende europee e quelle straniere che operano nel mercato europeo debbano essere obbligate per legge a prevenire danni a persone, ambiente e clima, sottolineando quanto sia chiara la richiesta della società civile affinché la politica imponga regole concrete di responsabilità e tutela.

A queste dinamiche di supremazia esercitate dai poteri forti — inizialmente mascherate, ma oggi sempre più esplicite — si affianca un quadro politico altrettanto preoccupante. La maggioranza che sostiene la Commissione Von der Leyen ha infatti contribuito a spostare in modo significativo l’asse politico dell’Unione europea verso destra in diversi ambiti strategici (Green Deal, Sostenibilità d’Impresa ma anche riarmo e approvvigionamento energetico). In questo processo, il ricorso consapevole e reiterato ai voti dei partiti populisti e sovranisti di destra, tradizionalmente e per definizione collocati su posizioni “antieuropeiste”, non appare più come un’eccezione tattica, ma come una scelta politica strutturale. Una dinamica che, al di là delle dichiarazioni di principio, finisce per riflettere e legittimare l’orientamento oggi largamente maggioritario dei governi nazionali all’interno dell’UE, contribuendo a ridefinire in profondità gli equilibri e le priorità del progetto europeo.

Tutti questi elementi, a partire dall’annuncio dell’Omnibus I, si sono susseguiti con una rapidità sorprendente e hanno condotto all’esito del voto di ieri al Parlamento europeo. Un voto che, di fatto, non ha fatto altro che ratificare quanto già emerso nei negoziati del Trilogo politico — anch’essi caratterizzati da tempi insolitamente compressi, appena un mese — e che ha finito per certificare una fragilità strutturale che sta progressivamente erodendo la tenuta politica dell’Unione europea.

Una debolezza che appare tanto più evidente se rapportata alle crisi sistemiche che l’UE è chiamata ad affrontare: dalla guerra in Ucraina al conflitto in Medio Oriente, fino alle crescenti pressioni esercitate dagli Stati Uniti. In questo contesto, la capacità europea di elaborare risposte coerenti e di lungo periodo sembra affievolirsi, lasciando spazio a compromessi di corto respiro. È significativo, infatti, osservare come solo un anno fa il dibattito politico fosse orientato a ripensare il modello di fare impresa, ampliandone prospettive, responsabilità e orizzonti sociali e ambientali. Oggi, al contrario, il baricentro dell’attenzione torna a concentrarsi sempre più frequentemente su casi di violazioni dei diritti umani e su pratiche che arrecano gravi danni all’ambiente. Una regressione che non è casuale, ma che affonda le sue radici in scelte politiche precise, orientate a guardare indietro piuttosto che a costruire una visione europea capace di affrontare le sfide future.

Proprio perché la direttiva nasceva per dare voce a chi subisce gli impatti delle attività economiche e per rendere le imprese realmente responsabili lungo tutta la catena del valore, l’indebolimento del coinvolgimento di lavoratori, comunità e società civile rappresenta un arretramento profondo, poiché allontanare queste voci dai processi decisionali significa perdere il contatto con la realtà dei danni prodotti e ridurre la due diligence a un esercizio formale, incapace di prevenire abusi e ingiustizie; in questo contesto, il recepimento nazionale diventa il vero terreno su cui si gioca il futuro della responsabilità d’impresa in Europa, e risulta quanto mai urgente che anche in Italia, come già avviene nella maggior parte degli Stati membri, il dibattito pubblico e mediatico sia vivo, informato e acceso, poiché solo una discussione ampia e trasparente può spingere governi, imprese e decisori politici a scegliere se trasformare la due diligence in uno strumento efficace di tutela dei diritti umani, dell’ambiente e dell’accesso alla giustizia oppure lasciarla scivolare verso una promessa mancata; in questo quadro, MANI TESE continuerà a impegnarsi, anche attraverso le coalizioni e i network nazionali di cui fa parte, per promuovere un processo di trasposizione della direttiva che sia migliorativo, inclusivo e trasparente, affinché il recepimento nazionale rafforzi concretamente la responsabilità delle imprese e la protezione di chi subisce gli impatti delle loro attività.