MOLTI ATTORI, MOLTE VIOLAZIONI NELLA LUNGA FILIERA DEL TESSILE

La filiera del tessile è complessa, con numerosi passaggi che vanno dalla coltivazione del cotone fino al confezionamento dei capi di abbigliamento. Questo contribuisce ad aumentare il rischio che al suo interno avvengano importanti violazioni di diritti umani, diritti del lavoro, diritti ambientali. L’elenco delle manifestazioni più eclatanti include lavoro forzato, peggiori forme di lavoro […]

La filiera del tessile è complessa, con numerosi passaggi che vanno dalla coltivazione del cotone fino al confezionamento dei capi di abbigliamento. Questo contribuisce ad aumentare il rischio che al suo interno avvengano importanti violazioni di diritti umani, diritti del lavoro, diritti ambientali. L’elenco delle manifestazioni più eclatanti include lavoro forzato, peggiori forme di lavoro minorile, mancato rispetto delle norme di base del diritto del lavoro, negazione delle libertà di associazione, discriminazione contro donne e migranti – e per quanto riguarda l’ambiente, utilizzo e smaltimento impropri delle acque e impiego di agenti chimici pericolosi.

Se i responsabili di queste violazioni sono molteplici, e includono in alcuni casi attori statali, sono sempre i lavoratori e le popolazioni delle zone in cui operano le imprese a pagarne le conseguenze. In passato l’attenzione tendeva a concentrarsi principalmente sulle fasi finali della filiera tessile, ma è evidente che la coltivazione e le fasi di filatura e tessitura non sono meno esposte a violazioni gravissime. Analogamente il concetto di responsabilità si è andato sempre più ampliando e articolando in concetti come liability, corporate social responsibility, due diligence.

Consapevoli della vulnerabilità della filiera tessile, e in linea con un più generale movimento internazionale che da tempo e con forza esige la tutela dei diritti umani rispetto agli interessi del business, sono andati moltiplicandosi gli sforzi per identificare e mitigare i rischi, e per monitorare e certificare processi e prodotti.

Complice anche una maggiore attenzione di consumatori e società civile, il business ha ideato nuove azioni per comunicare trasparenza e monitoraggio della filiera: iniziative di RSI, audit, ispezioni, programmi volontari di certificazione, monitoraggio e piani ampia-mente pubblicati di cambiamento e miglioramento. Non sono mancate le collaborazioni tra grandi multinazionali e i loro corrispettivi nel mondo delle organizzazioni non governative, per l’elaborazione di codici di condotta volontari, e per la limitazione dei danni e l’inclusione di categorie potenzialmente danneggiate dall’operato stesso del business.

Tuttavia molte di queste azioni hanno carattere volontario, sono pagate dalle stesse imprese, che possono scegliere discrezionalmente se e come accogliere critiche e suggerimenti. Seguire i soldi aiuta a comprendere le relazioni di potere. Se dunque non servono ad incidere in maniera significativa sulla realtà, se anche all’interno di catene produttive certificate e sottoposte ad audit possono avvenire tragedie immani come il crollo del Rana Plaza, il rischio è che siano solo rumore di fondo, conducendo a una situazione di responsabilità eccessivamente diffusa e diluita. E mentre si distoglie attenzione e pressione dai veri responsabili, deresponsabilizzando e disautorando stati ed entità sovranazionali, tutto, nel mondo reale, procede come prima: ‘business as usual’.

Mani Tese in India

L’industria tessile è tra le più antiche dell’India, e per il ruolo che ha assunto nei secoli, ha una rilevanza che trascende la sola sfera economica. Sfera economica che peraltro domina a pieno titolo: sebbene in leggerissima flessione nell’ultimo biennio, la produzione tessile rappresenta il 10% del totale della produzione manifatturiera, costituisce il 2% del PIL e rappresenta il 14% del totale delle esportazioni, con 45 milioni di persone impiegate direttamente nel settore, e 60 milioni impiegati indirettamente. A questi numeri occorre affiancare quelli relativi al cotone, principale coltura a valore economico del paese, e che vede impiegati direttamente poco meno di 6 milioni di contadini, e circa 50 milioni di persone impiegate in attività connesse alla lavorazione e al commercio del cotone.

Il Tamil Nadu, nel sud dell’India, è uno dei punti nevralgici soprattutto per quanto riguarda la lavorazione del cotone, ed è qui infatti che da oltre venti anni Mani Tese collabora con l’organizzazione non governativa SAVE. Sin da subito l’azione delle due organizzazioni si è concentrata sullo sfruttamento del lavoro minorile nell’industria tessile e del confezionamento, e con il mutare della situazione sul campo, è stato necessario ampliare non solo il campo dei beneficiari, ma anche degli interlocutori.

La forza lavoro impiegata, infatti, è ora composta prevalentemente da giovani e giovanissime donne, e da migranti provenienti dagli stati più poveri del nord del paese; entrambe categorie vulnerabili e vittime di gravissime violazioni che non sono peraltro occasionali, ma anzi strutturali e necessarie alle imprese per il raggiungimento di profitti sempre maggiori.

Le aziende per cui producono sono notissime multinazionali che qui commissionano l’intera produzione. Superate le campagne di boicottaggio e ‘name and shame’ a favore di un approccio multistakeholder, Mani Tese e SAVE continuano a essere impegnati in un effettivo e costante monitoraggio sul campo delle modalità di attuazione del business, in azioni di informazione e formazione della società civile e della popolazione locale, e in azioni di diretta assistenza alle lavoratrici e ai lavoratori vittime di violazioni. Particolare attenzione viene riservata ai casi più gravi di sfruttamento del lavoro minorile, e a pratiche illegali di reclutamento di lavoratrici nella maggior parte dei casi minorenni.

Quello che osserviamo è che la responsabilità della filiera tessile tende ad essere scaricata localmente. È necessario che oltre a un engagement delle aziende sul campo ci siano anche strumenti nazionali e internazionali che chiaramente indentifichino le responsabilità del mondo del business. Le legislazioni anti-schiavitù promulgate negli ultimi anni vanno in questa direzione, ma ad oggi paiono essere più efficaci nella formulazione che non nell’attuazione.

Quello che chiediamo è che il business sia ritenuto responsabile delle filiere produttive, e che i governi non si limitino a legiferare, ma promuovano e garantiscano anche il pieno ed effettivo rispetto di queste leggi.

Gli interessi economici non possono avere priorità sui diritti umani. Non si può accettare che la responsabilità di promuovere e proteggere questi diritti venga abdicata, né dagli stati, né dalle imprese, perché nessuno può più credere che la ricchezza prodotta dal basso possa non essere ripagata.