Mani Tese aderisce alla Fashion Revolution Week 2020

Dal 20 al 26 aprile, in occasione dell’anniversario della tragedia del Rana Plaza, torna la Fashion Revolution Week. Nel momento in cui la pandemia globale sta avendo conseguenze drammatiche sui lavoratori dell’intera filiera, l’appello per un cambiamento radicale nell’industria dell’abbigliamento è oggi più che mai attuale.

di Riccardo Rossella, Area Advocacy, Educazione e Campagne

Il 24 aprile 2013 segna una data indelebile per il settore della moda. Nella periferia occidentale di Dacca, capitale del Bangladesh, l’edificio del Rana Plaza subisce un cedimento strutturale, collassando su sé stesso. 1.133 persone perdono la vita nel crollo, oltre 2.500 rimangono ferite. La maggior parte di esse erano lavoratori e lavoratrici dell’industria tessile: il palazzo di otto piani ospitava infatti diverse fabbriche che realizzavano prodotti di abbigliamento per i grandi brand occidentali, tra questi Benetton, Inditex (gruppo proprietario di marchi come Zara, Bershka e Pull and Bear) e Primark.

La tragedia assume un sapore ancora più amaro se si considera che poteva essere facilmente evitata. Proprio nel giorno precedente al crollo, infatti, nel corso di una verifica erano state rilevate delle preoccupanti crepe all’interno dell’edificio, che avevano portato gli ispettori a chiederne l’immediata evacuazione e chiusura. Un avvertimento ignorato dai proprietari degli stabilimenti tessili.

Quanto accaduto accese i riflettori sul problema delle condizioni di estrema precarietà e insicurezza di chi lavora nelle fabbriche del Sud del mondo che producono i nostri vestiti. Un primo, tangibile passo in avanti fu l’“Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh”. Siglato dalle principali unioni sindacali e da oltre 200 marchi di abbigliamento, ha consentito, almeno finora, di alzare il livello di attenzione e ridurre alcuni dei rischi più ricorrenti.

Dalle macerie del Rana Plaza ha avuto origine il movimento globale Fashion Revolution, che invoca un profondo cambiamento nell’industria della moda improntato a una maggiore trasparenza lungo le filiere produttive e al miglioramento delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici che ne fanno parte. Il movimento ha la sua massima visibilità in occasione della Fashion Revolution Week che, una volta all’anno, intorno al 24 aprile,  chiama a raccolta milioni di attivisti, cittadini e consumatori in tutto il mondo per chiedere ai brand del settore maggiore trasparenza e maggiore responsabilità, attraverso l’iconico hashtag #WhoMadeMyClothes?.

Quest’anno l’appuntamento assume una rilevanza ancora maggiore dal momento che il comparto dell’abbigliamento si trova a fronteggiare una crisi le cui conseguenze appaiono sempre più drammatiche. La pandemia globale causata dal Covid-19 sta infatti paralizzando una filiera globale caratterizzata da elevata complessità, frammentazione e interdipendenza. La sospensione delle attività nelle fabbriche, prima in Cina e poi nel resto del mondo, Italia compresa, unita alla successiva chiusura dei negozi fisici, sta causando un vero e proprio disastro a catena. Mentre crollano gli acquisti da parte dei consumatori, i brand si trovano a fare i conti con magazzini che scoppiano di capi invenduti e con l’impossibilità di programmare le prossime collezioni.

Una crisi che sta colpendo quindi l’intero settore della moda, senza eccezioni, ma le cui ripercussioni più gravi ricadono, ancora una volta, sulle spalle delle categorie più vulnerabili. È il caso, ad esempio, degli artigiani e degli stilisti indipendenti, che hanno una minore capacità di resistere allo shock economico, o dei dipendenti dei grandi marchi in Europa e Stati Uniti, costretti alla cassa integrazione. Nel Sud del mondo la sospensione degli ordini dai Paesi ricchi sta invece compromettendo l’esistenza di centinaia di migliaia di “padroncini”, costretti già normalmente a operare con margini risicati e tempi di consegna proibitivi.

In alcuni casi i grandi marchi si stanno rifiutando anche di ricevere e pagare gli ordini già effettuati settimane o mesi fa, ora pronti per la consegna. Tutto questo, unito al “lockdown” imposto in paesi come Bangladesh, India, Cambogia e Myanmar, sta facendo sì che milioni di lavoratori e lavoratrici vengano lasciati a casa senza uno stipendio e senza accesso a forme di protezione sociale. Non va d’altronde meglio in quei casi in cui gli opifici e i laboratori continuano a rimanere aperti, dato che l’assenza o insufficienza delle misure di protezione necessarie espone i lavoratori e le lavoratrici a un altissimo rischio di contagio.

L’emergenza Coronavirus sta rendendo esplicite tutte le storture di un modello di design, creazione e consumo strutturalmente insostenibile, in cui all’acquisto sempre più frenetico di nuovi capi di abbigliamento fa da contraltare lo sfruttamento di milioni di persone, in particolare donne e bambini, e un enorme impatto ambientale. La necessità di avviare una vera Fashion Revolution, che superi gli slogan e prenda corpo nel modo di pensare e concretizzare la moda, appare più impellente che mai.

Mani Tese si batte da decenni per questa causa e, a partire dalla prossima settimana rivoluzionaria, farà di tutto perché la crisi che stiamo vivendo si trasformi nell’opportunità di cui tutti parlano ma di cui, purtroppo, ancora troppo pochi si vogliono fare carico.

Per saperne di più sull’impegno di Mani Tese nel promuovere nuovi modelli di business rispettosi di ambiente e diritti umani visitate la pagina MADE IN JUSTICE: https://manitese.it/made-in-justice

Per scoprire il progetto Cambia MODA!, volto a sensibilizzare sugli impatti del sistema fast fashion, visitate la pagina del progetto: https://manitese.it/progetto/cambia-moda

Per maggiori informazioni e materiali sulla Fashion Revolution Week 2020: https://www.fashionrevolution.org/resources/free-downloads/