LA SFIDA DA NON PERDERE

Negli ultimi dieci anni, sono state due le crisi globali che hanno segnato la vita della comunità internazionale: la crisi finanziaria dei mutui sub-prime e la crisi climatica, che ha scalato la classifica dei trend topics dal 2015 a oggi.

di GIOSUÈ DE SALVO, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese. 

DIETRO LA FACCIATA DEL MARKETING DELLA SOSTENIBILITÀ, LE IMPRESE CONTINUANO A ERODERE RISORSE E DIRITTI. IMPEGNARSI PER L’AMBIENTE SIGNIFICA LAVORARE OGNI GIORNO PER UN NUOVO SISTEMA ECONOMICO AL SERVIZIO DI TUTTI E NON DI POCHI. 

Negli ultimi dieci anni, guerre a parte, sono state due le crisi globali che hanno segnato la vita della comunità internazionale: la crisi finanziaria dei mutui sub-prime, che ha avuto il suo apice tra il 2008 e il 2014, e la crisi climatica, che ha scalato la classifica dei trend topics dal 2015 ad oggi. Nel primo caso, l’impegno solenne era quello di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario e di ridurne l’influenza sull’economia reale e la società. Non solo non è stato fatto, ma ci troviamo oggi in una situazione probabilmente peggiore. La stessa finanza è riuscita, da una parte, a ribaltare l’immaginario collettivo, addossando la responsabilità della crisi sugli Stati e i loro debiti pubblici, dall’altra, a rivitalizzare il mito della crescita senza fine. Nel secondo caso, ci sono voluti almeno quindici anni per riconoscere – trumpisti, terrapiattisti e lobbysti petroliferi a parte – che viviamo nell’antropocene ovvero in un’era geologica in cui l’ambiente terrestre viene fortemente condizionato dall’azione umana. Nonostante ciò, le promesse di riduzione delle emissioni di anidride carbonica da parte dei 196 Stati delle Nazioni Unite, e fra loro quelle di Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Cina, sono tuttora insufficienti a scongiurare l’innesto di un’apocalisse climatica che potrebbe rendere impossibile la vita umana su larga parte del pianeta. In entrambi i casi quello che guida alla NON scelta da parte degli Stati e delle istituzioni sovranazionali appare essere l’incapacità di rinunciare all’attuale stile di vita e di immaginarne uno nuovo, che si basi su modelli di produzione di beni e servizi realizzati per soddisfare bisogni reali (e non indotti) e per consentire la rigenerazione delle risorse naturali rinnovabili.

A fronte di questa inerzia, dietro la facciata populista del marketing della sostenibilità, si assiste invece a una rincorsa selvaggia a scavare il fondo del barile, non solo del petrolio residuo, ma di tutte le risorse naturali e di tutti i diritti sociali che siano in qualche modo monetizzabili: foreste, laghi, fiumi, mari e terre fertili, ma anche diritto alla salute, all’istruzione, all’abitare, alla previdenza e alla sicurezza sociale. Saskia Sassen, docente della Columbia University di New York e sociologa di fama internazionale, lo chiama capitalismo estrattivo. Una tendenza sotterranea che riguarda processi apparentemente diversi quali l’impoverimento della classe media nei paesi ricchi, lo sfratto di milioni di piccoli agricoltori nei paesi poveri e le pratiche industriali distruttive per la biosfera. Il risultato: la fine della logica inclusiva che ha governato l’economia capitalistica a partire dal secondo dopoguerra e l’affermazione di una nuova, pericolosa dinamica. Quella delle “espulsioni”. Espulsioni dai centri storici dei cittadini, espulsioni dalle campagne dei contadini, espulsioni dalle terre ancestrali dei popoli indigeni. Papa Francesco le chiama “vite di scarto” e con la sua enciclica “Laudato Si” afferma forte e chiaro che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”.

foto Matteo Masi mani tese 2019
© Matteo Masi

 

Dare voce ai diritti 

 

Giustizia ambientale e giustizia sociale sono quindi due facce della stessa medaglia. Una medaglia di volontà e di impegno che come Mani Tese ci siamo appuntati sul petto da tempo. Da quando ci è parso evidente che, in Africa come in Italia, avere accesso a un ambiente sano e poter incidere sulle decisioni che riguardano lo sfruttamento delle ricchezze naturali che lo compongono, siano precondizioni fondamentali all’esercizio dei nostri diritti. Ce lo hanno insegnato gli Ogiek in Kenya, con la loro lotta per tornare ad abitare la Foresta di Mau, dopo essere stati cacciati dall’avanzata delle monocolture di tè, delle piantagioni di pini ad uso commerciale e della deforestazione illegale. Ce lo hanno insegnato i movimenti ambientalisti e indigeni dell’Ecuador che si battono contro l’estrazione di petrolio nel Parco dello Yasuni, cuore della Foresta Amazzonica, affinché Chevron-Texaco paghi 8 miliardi di dollari di compensazione per l’ecocidio perpetrato a Lago Agrio e che si oppongono all’apertura di una miniera d’oro, canadese, al centro del Paramo di Kimsakocha, fonte di acqua limpida dell’Azuay. Ce lo insegnano le associazioni e i comitati tarantini che chiedono con caparbietà, preparazione e compostezza la chiusura dell’Ex-ILVA, ora Arcelor Mittal, e la bonifica e la riconversione di una terra che è diventata nel tempo un vero e proprio caso di razzismo ambientale, nel momento in cui si è chiesto ai suoi cittadini di scegliere tra due diritti, salute e lavoro, che, da un punto di vista costituzionale, sono inscindibili.

La transizione necessaria 

 

Anche in questi casi manca la capacità di immaginare un futuro diverso e di pianificare la transizione necessaria. Una transizione che per essere efficace dovrebbe coinvolgere governi centrali, enti locali, istituzioni internazionali, università, imprese e società civile, e avere come meta finale quella di edificare una nuova “casa comune”, che abbia come pavimento i diritti umani, tutti, e come soffitto i limiti del pianeta non valicabili (cambiamento climatico, acidificazione degli oceani, perdita di biodiversità, utilizzo dall’acqua dolce, cambiamenti nell’utilizzo del suolo, ecc). Tra le mura di questa casa, l’attività economica potrebbe svilupparsi in modo equo e inclusivo e consentire di raggiungere, entro il 2030, i famosi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Mancano solo undici anni e, se ci pensate, questo implicherebbe che, entro solo undici anni (più o meno il tempo entro il quale i nostri figli completano il ciclo di istruzione obbligatoria): l’Ex-ILVA non solo sia chiusa ma che la bonifica e la riconversione siano a pieno regime; che l’estrazione degli idrocarburi e degli altri minerali ad uso industriale, in Ecuador e in tutto il mondo, non solo sia vietata ma anche sostituita da energie e materie prime rinnovabili; che gli Ogiek, e tutti i popoli indigeni che lo desiderano, siano reinsediati nelle loro terre ancestrali; che la finanza e la tecnologia, da leve del capitalismo estrattivo, siano riportate al servizio dell’economia reale, della pace e della democrazia attraverso una serie di regole che ristabiliscano il primato della politica sugli interessi privati di pochi.

 È una corsa contro il tempo che fa tremare i polsi, soprattutto se consideriamo il panorama attuale come punto di partenza. Ma è una sfida ineludibile in cui ognuno di noi può e deve fare la sua parte sia come cittadino responsabile che come attivista. A partire da…ora!

 

Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2019 del Giornale di Mani Tese.