Intervista a Stefano Lucarelli

Che cos’è il concetto di Etica in Economia? La relazione che c’è fra l’etica e l’economia è una relazione pericolosa. Da un certo punto di vista l’economia e l’etica sono sorelle, provenendo entrambe dalla filosofia morale.  L’analisi etimologica di entrambe le parole, mostra che esse esprimono due modalità dell’abitare (l’oikia, cioè la dimora, e l’ethos, […]

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Che cos’è il concetto di Etica in Economia?

La relazione che c’è fra l’etica e l’economia è una relazione pericolosa. Da un certo punto di vista l’economia e l’etica sono sorelle, provenendo entrambe dalla filosofia morale.  L’analisi etimologica di entrambe le parole, mostra che esse esprimono due modalità dell’abitare (l’oikia, cioè la dimora, e l’ethos, cioè ciò che è solito per l’uomo). Tuttavia si potrebbe anche dire che almeno una di loro – e cioè l’economia – abbia dimenticato le sue radici profonde, spinta dai cambiamenti radicali che il suo oggetto specifico – il sistema economico – ha subito, soprattutto quando il capitalismo si è imposto in tutta la sua potenza e prepotenza. Da ambito del sapere finalizzato a studiare le condizioni di vitalità di un sistema economico ben delimitato, l’economia politica, dopo la rivoluzione industriale, si afferma come disciplina mirata ad esaminare il segreto della ricchezza delle nazioni, e della loro espansione, sia in termini di prodotto nazionale, che in termini di controllo dei mercati internazionali. La figura sociale dell’imprenditore, d’altro canto, impone una vera e propria torsione all’etica, la quale viene a questo punto re-interpretata e ricostruita, quasi a giustificare l’accumulazione capitalistica e a biasimare i comportamenti non intonati alle caratteristiche tipiche dell’imprenditore, come l’intraprendenza, o la propensione al rischio, o ancora, l’astensione al consumo. Come è noto – almeno da Weber – in questi processi contano le nuove istituzioni religiose che si affermano soprattutto nell’Europa del Nord in rottura con la Chiesa di Roma. E’ interessante che dinanzi ai disordini ai quali spesso conduce il sistema capitalistico quando è lasciato a sé stesso emerga l’esigenza di una regolazione che tenta di riaffermare un’etica. Nel periodo storico immediatamente successivo alla crisi del 1929, poi, ancor più dopo il grande disastro della Seconda Guerra Mondiale, l’intervento pubblico ha in qualche modo rappresentato la via attraverso la quale la politica statuale ha preteso di costruire un’etica nuova – sorta almeno formalmente dal riconoscimento non solo dei diritti fondamentali dell’essere umano, ma anche dalla presa d’atto che il vivere civile si fonda sul lavoro, e che dietro al lavoro può esserci un rapporto di sfruttamento che va mediato. Basta rileggere la prima parte della Costituzione Italiana per avere una chiara testimonianza di questa particolare articolazione fra economia ed etica e della funzione mediatrice che lo Stato pretende di assumere. Va detto che si giunge a questo punto anche a seguito della capacità di esercitare un conflitto di classe da parte dei lavoratori. Questo tentativo salta nel corso degli anni Settanta soprattutto perché gli attori economici – sia sul piano nazionale, che sul piano internazionale – pretendono di liberarsi dal controllo statuale.

Il tema è complesso è non può essere risolto solamente dichiarando che i lavoratori – e più in generale i più deboli – sono stati vittima dell’ideologia neoliberista, e, nemmeno limitandosi a tirare in ballo l’americanismo di cui sarebbe vittima l’Europa. Non è pensabile una politica economica che non si ponga il problema dell’etica, ma non si recupera l’etica, anzi la si affossa, relegandola a codici comportamentali cui le imprese o gli operatori finanziari dichiarano di aderire, siano essi certificati o meno.

Che cos’è il TTIP, chi l’ha voluto?

Il sito della Commissione Europea spiega bene cosa sia il TTIP: “Il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) è un accordo commerciale che è attualmente in corso di negoziato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l’Unione Europea e gli Stati Uniti vogliono affrontare il problema delle barriere doganali – come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e le procedure di omologazione.” Il punto fondamentale è che queste facilitazioni rischiano di condurre a dinamiche concorrenziali in cui a prevalere saranno i grandi gruppi oligopolistici, che oggi assumono la veste di corporations. Ormai tutti i più seri studi economici mostrano che l’apertura alla concorrenza non conduce a maggiore efficienza, né garantisce l’allocazione ottimale delle risorse. L’idea che la concorrenza perfetta garantisca l’efficienza allocativa, produttiva e della composizione del prodotto (ciò che va sotto il nome di primo teorema dell’economia del benessere) è un risultato utile ad introdurre un corso universitario di politica economica o di economia pubblica.

Nelle lezioni successive, sempre per rimanere confinati al mainstream si apprenderebbe subito che il mercato è caratterizzato dalla presenza di fallimenti che comportano la non validità del primo teorema dell’economia del benessere: tra questi fallimenti, oltre ai beni pubblici, al monopolio naturale e alle esternalità, spiccano le asimmetrie informative, un concetto per il quale Akerlof, Stiglitz e Spence hanno ricevuto il premio Nobel nel 2001, che rinvia a guardar bene ai rapporti di potere che caratterizzano le relazioni fra le nazioni, le imprese, e gli esseri umani. Le condizioni politiche ed economiche di partenza fra USA ed Europa sono molto diverse. Ancor più squilibrate appaiono le condizioni interne all’Unione Europea. Ciò che oggi caratterizza il mercato globale è innanzitutto la presenza di squilibri commerciali che vanno ampliandosi e che nascondo situazioni di neomercantilismo in cui alcuni Paesi difendono dei surplus commerciali a discapito di altri, che sono condannati al deficit commerciale e alla dipendenza finanziaria e tecnologica. Ciò conduce ad una organizzazione della produzione a livello internazionale, dunque anche ad una divisione internazionale del lavoro, in cui chi controlla la filiera transnazionale della produzione detta le leggi.

Temo che il TTIP non farebbe che accentuare questi squilibri. Quello che lascia ancor più basiti del TTIP sono alcuni aspetti giurisdizionali, come la possibilità per le corporation multinazionali di chiamare in giudizio gli Stati che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato promuove, anche alle normative ambientali, igieniche, di sicurezza alimentare e fisica.

Qual è Il ruolo della moneta nel TTIP?

Il TTIP non entra nel merito delle politiche monetarie internazionali. Da quel che comprendo ci troveremo dinanzi ad una relazione fra USA ed Europa in cui la moneta di riserva internazionale rimarrebbe comunque i dollaro. Temo che, anche alla luce del controllo che gli USA possono esercitare, militarmente e non, sui principali mercati energetici, ci troveremo di fronte ad una dinamica tipica dei modelli centro-periferia, in cui gli USA giocherebbero il ruolo del Centro e l’Europa quello della periferia, inondata dai dollari necessari ad acquistare i beni made in USA. Un processo che non si esaurirebbe in pochi anni, che dovrebbe senza dubbio tener conto di fattori geopolitici ulteriori, ma che non ritengo improbabile.

Quali sono le implicazioni del libero scambio e delle liberalizzazioni del Trattato per la piccola impresa?

Seguendo il ragionamento che ho sinora condotto, il TTIP favorirebbe i processi di concentrazione industriale guidati dalle corporation multinazionali, e di fatto già in atto. La piccola impresa è già oggi una realtà in via di estinzione.

E’ possibile pensare ad un’etica d’impresa?

Se la storia del TTIP si svolgerà secondo quanto ho esposto sinora, significa che – ideologicamente – questo processo verrà legittimato nel nome dei presunti vantaggi del libero mercato. E’ probabile che assisteremo a una nuova ondata retorica che utilizzerà ancora una volta a sproposito l’etica, e continueranno a proliferare certificazioni per le multinazionali necessarie ad attestare la qualità dei cibi transgenici, il rispetto delle condizioni di lavoro a livello globale – senza ovviamente ammettere l’ingerenza dei sindacati – gli equilibri di genere o di razza attestati da nuove forme di accounting, in grado di nascondere forme di ricatto vero e proprio… In tal senso si diffonderà un’etica di impresa, senza dubbio. Il vero problema è che tutto questo già esiste solo in forma minore, ed è già stato sottoposto a critica, mostrando non solo l’inutilità di un’etica non autentica, ma anche le menzogne che si nascondono dietro questi paraventi. E’ ciò che accadde a Seattle nel 1999 in occasione della conferenza del WTO, poi nel Luglio 2001 durante il G8 di Genova, e poi ancora nel 2011 con la vittoria referendaria a proposito dell’obbligo a privatizzare la gestione del servizio idrico integrato in Italia. Queste esperienze di lotta, che considero legittima e doverosa, non sono riuscite a far affermare un’etica capace di tradursi in istituzioni durevoli, in cui le mediazioni tra interessi diversi e contrastanti siano possibili, grazie alle quali non siano le logiche capitalistiche a dettare i comportamenti umani, ma siano le intelligenze delle donne e degli uomini a costruire un’altra economia, un abitare autentico.