Intervista a Carmelo Buscema

Perché la sociologia è importante per l’economia? La sociologia è una disciplina scientifica relativamente giovane che nella sua stessa ontologia ha a che vedere con i processi economici. Una sensibilità intellettuale genericamente sociologica è pressoché sempre esistita nella tradizione del pensiero occidentale. Tuttavia, sono stati gli impetuosi sconvolgimenti portati dall’avvento e dallo sviluppo del capitalismo, […]

Perché la sociologia è importante per l’economia?

La sociologia è una disciplina scientifica relativamente giovane che nella sua stessa ontologia ha a che vedere con i processi economici. Una sensibilità intellettuale genericamente sociologica è pressoché sempre esistita nella tradizione del pensiero occidentale. Tuttavia, sono stati gli impetuosi sconvolgimenti portati dall’avvento e dallo sviluppo del capitalismo, a tutti i livelli della vita sociale, a suscitare e stimolare una sensibilità scientifica propriamente sociologica, nonché a nutrire una esigenza politica e governamentale di specializzazione di questa tipologia di sapere e potere.

Dovendo semplificare, credo si possano isolare due principali matrici materiali e culturali del pensiero propriamente sociologico che ne sottolineano la relazione privilegiata con i fenomeni economici. Da una parte, la progressiva affermazione ed espansione storica e geografica di una particolare forma di economia mai esistita prima nella storia sociale, o comunque confinata agli ambiti affatto marginali della cosiddetta crematistica; una economia che Polanyi descrive come virtualmente scorporata dalla complessiva struttura sociale, autoregolantesi e sempre più capace di imporre a ogni aspetto della realtà naturale e umana la forma d’esistenza e di funzionamento propria della merce; una economia, quindi, capace di sovradeterminare in misura sempre più sistematica la vita delle società e degli individui, per altro, su un piano sempre più globale. Dall’altra, la dimensione di immanenza materialistica entro cui inquadrare la riflessione sulla scaturigine dei fatti sociali e storici: in particolare, Marx sposta dal livello nobile dello Spirito a quello delle basse, sporche e volgari strutture di produzione e riproduzione sociale, il punto focale per la lettura della storia; da ciò deriva che le scienze umane, così come gli sforzi di progettualità politica, devono concentrare la loro attenzione al livello della catena dei fatti sociali ed economici per comprendere le trasformazioni storiche e contribuire a incidere nei processi .

È quindi evidente la natura intrinsecamente ambigua della sociologia: sguardo asimmetrico del potere sul corpo sociale; e ambito di riflessione, denuncia, elaborazione intellettuale e progettualità politica che una parte del corpo sociale matura su se stesso. Le controriforme universitarie degli ultimi lustri in Italia, ma più in generale le riforme e negoziazioni che si portano avanti a livello inter- e sovranazionale che prendono di mira il settore della formazione, rappresentano un processo che cerca di risolvere quella ambiguità a favore del primo polo. La ricerca e la riflessione accademica devono perdere il loro imprescindibile carattere di autonomia, e sempre di più servire gli interessi particolari dei più potenti agenti del mercato e delle istituzioni politiche.

Qual potrebbe essere l’impatto, dal punto di vista sociale, di un trattato come il TTIP?

Del TTIP, e dei trattati correlati del TTP e TISA, sappiamo ancora poco data la segretezza e le modalità anti-democratiche che ne caratterizzano le dinamiche di negoziazione. Tuttavia, da ciò che trapela, essi sembrano avere importanza strategica rispetto a questioni che solo in apparenza hanno natura esclusivamente commerciale ed economica; piuttosto, ritengo che essi vadano interpretati nel più ampio quadro della geopolitica contemporanea, e della particolare fase storica che la caratterizza: quella che con Arrighi, e adottando uno sguardo attento alla lunga durata dei processi storici, potremmo pensare come il tribolato interregno tra un ciclo sistemico di accumulazione entrato in crisi, ad egemonia statunitense, ed un altro che tenta di affermarsi, principalmente a guida cinese.

Questa prospettiva ci impone la necessità di considerare questi trattati nella più ampia serie dei processi storicamente occorrenti – di carattere politico e geopolitico, sociale e militare, economico e finanziario, tecnologico e mediatico – che stanno riconfigurando in profondità la struttura stessa della società globale e l’effettività dei poteri da cui essa è attraversata. Che questo processo rappresenti l’ultimo colpo di coda della morente egemonia statunitense, o invece una sua efficace e radicale riconfigurazione vincente, è impossibile dirlo. Anzi, contro ogni pessimismo dell’intelligenza storica, dobbiamo sperare e impegnarci affinché non sia un nuovo disastroso conflitto mondiale a deciderlo. Perché, come la cronaca dimostra, la recrudescenza della guerra è il primo e più pernicioso impatto sociale a cui gradualmente già sta portando questa nuova fase storica di contesa generalizzata e di sempre più marcata polarizzazione delle dinamiche internazionali, che si dispiegano su tutti i piani della vita sociale e globale.

Un secondo impatto sociale ha a che vedere con l’alimentazione del processo che, già dagli anni Settanta, sta riconfigurando i rapporti di potere all’interno della società, e quindi la costituzione materiale del mondo. Questo va nella direzione di una accumulazione accelerata e impressionante di ricchezza e potere in una élite transnazionale che fa apparire come una ottimistica approssimazione per eccesso persino quell’un percento identificato come bersaglio di protesta politica da parte del movimento di Occupy Wall Street. Chiusa la parentesi post-bellica che un po’ romanticamente viene definita come la fase di compromesso storico tra capitale e lavoro nei paesi occidentali, corporations finanziarie, industriali e commerciali hanno ripreso aggressivamente ad accumulare e formalizzare attraverso leggi, trattati e prassi, sempre più potere e capacità predatorie in tutto il mondo. Il TTIP, TTP e TISA offrono evidentemente nuova linfa a questo processo storico.

Ritengo sia ingenua, a tal proposito, la lamentazione rispetto alla perdita di sovranità degli Stati a beneficio di queste corporations, che si sta rinnovando recentemente anche a proposito dei trattati oggetto della nostra intervista ed in particolare in merito alla sistematica incorporazione in essi dei cosiddetti Investment-State Dispute Settlements. Infatti, nel quadro del neoliberismo gli Stati sono lo strumento precipuo di produzione artificiale e aggressiva dei mercati, di istituzione e regolazione continua dei meccanismi della concorrenza generalizzata, di imposizione macro- e micro-fisica della forma di vita legata al motivo del guadagno monetario su ogni altro motivo sociale, di contenimento e finanche distruzione violenta delle classi o categorie sociali “pericolose”, non assorbibili entro le dinamiche di valorizzazione del capitale.

Altre prevedibili tipologie di impatto sociale, discendono da queste due principali sopra discusse e hanno a che fare principalmente con l’accelerazione dei processi di mercificazione, i rapporti di potere nel quadro del nuovo assetto del mercato del lavoro, e la questione ambientale. Oltre a queste, una particolarmente degna di nota riguarda la questione relativa al processo di digitalizzazione di tutti gli aspetti della realtà sociale, portato avanti dalle potentissime corporations americane legate allo sviluppo del web. Essa è troppo poco considerata nei dibattiti, benché dal mio punto di vista sia strategica per maturare intelligenza dei processi storici in atto. La questione dei big data digitali, espropriati, accumulati, trattati, venduti e impiegati a scopi commerciali e politici da parte di quei soggetti, va letta infatti all’interno del processo di radicale riconfigurazione dei rapporti di potere in seno alla società, e dello sviluppo di una nuova piattaforma storica di riarticolazione delle vecchie e nuove effettività dei poteri. Questo tema dovrebbe destare grande attenzione, preoccupazione e capacità di intervento politico da parte dei movimenti.

Perché il Trattato mina particolarmente il settore agro-alimentare e nello specifico le reti alternative di cibo, molto importanti per il nostro paese?

Il trattato mina il settore agro-alimentare europeo e, più in particolare, le capacità di sviluppare pratiche sociali legate alla prospettiva della sovranità alimentare innanzitutto per le differenze strutturali che caratterizzano questi settori negli Stati Uniti e in Europa. A tal proposito, il dato più emblematico è quello relativo alla dimensione media dell’impresa agricola statunitense, più grande di tredici volte rispetto a quella europea, a fronte del fatto che gli agricoltori statunitensi siano meno di un sesto di quelli del vecchio continente. Questa grande concentrazione di capitali in questo settore legato al soddisfacimento dei bisogni vitali dell’alimentazione, e a questioni nevralgiche quali la qualità del cibo e la più complessiva relazione tra le società e i territori, non può non destare preoccupazioni. Inoltre, particolarmente rilevante è al proposito è l’altra grande differenza strutturare che caratterizza il settore agro-alimentare dei due continenti: quella relativa al differente approccio rispetto alla liceità dell’uso di OGM, nonché di sostanze chimiche giudicate pericolose per la salute degli esseri umani, degli animali e dei vegetali.