ECUADOR: CAUSE E CONSEGUENZE DI UNA CRISI ANNUNCIATA

Da una settimana l’Ecuador è un paese fuori controllo: manifestazioni pacifiche represse nel sangue, governo in esilio e saccheggi.

di Tancredi Tarantino, cooperante e docente universitario, collaboratore storico di Mani Tese in Ecuador

Da una settimana l’Ecuador è un paese fuori controllo. Le manifestazioni di indigeni, lavoratori e studenti si susseguono in tutto il paese, mentre la repressione da parte di esercito e polizia si fa sempre più violenta e indiscriminata. Il Governo ha abbandonato la capitale e il Parlamento è chiuso da giorni. Lo stato d’emergenza, decretato dal Presidente Lenín Moreno, limita le libertà fondamentali dei cittadini mentre il coprifuoco riduce la mobilità nelle ore notturne. I saccheggi e le rapine sono numerosi in tutto il paese e lo Stato è assente.

Ad accendere le proteste della popolazione locale è stata l’adozione da parte del governo, lo scorso 2 ottobre, di una serie di misure di riduzione della spesa pubblica. L’esecutivo, senza nessun dialogo previo con le parti sociali, ha eliminato i contributi pubblici sulla benzina, ridotto il salario degli impiegati statali e dimezzato i giorni di ferie.

A dettare il nuovo corso della politica economica ecuadoriana è il Fondo Monetario Internazionale che, a fronte di un credito di oltre 4 miliardi di dollari, concesso per contrastare la recessione e la mancanza di liquidità che opprime il paese sudamericano, ha preteso una serie di aggiustamenti strutturali volti a ridurre la spesa pubblica, flessibilizzare il mercato del lavoro e privatizzare le aziende pubbliche che godono di buona salute.

Un accordo, quello con l’Fmi, le cui negoziazioni sono avvenute nella massima riservatezza, senza alcun dialogo con la popolazione e senza un passaggio formale in Parlamento, come previsto invece dalla Costituzione ecuadoriana.

A scendere in strada per primi sono stati i lavoratori del settore dei trasporti, che il 3 ottobre hanno indetto uno sciopero generale per protestare contro l’aumento del combustibile. Dalla sera alla mattina, la benzina è aumentata del 20% mentre il prezzo del diesel è raddoppiato, con conseguenze preoccupanti anche per la produzione e il trasporto delle merci.

Nei mercati, il prezzo dei prodotti è aumentato immediatamente, e in alcuni casi è più che raddoppiato. Con la conseguenza che, mentre i tassisti paralizzavano Quito, le organizzazioni indigene si riversavano in strada bloccando le principali arterie del paese e annunciando una marcia verso la capitale.

Così, quando in seguito ad un accordo con il governo che garantiva l’aumento delle tariffe, i tassisti e gli autisti d’autobus hanno annunciato la fine dello sciopero, gli indigeni e i contadini stavano già camminando verso Quito. E la protesta dilagava anche in altre città del paese.

Per fronteggiare una situazione che fin da subito è sembrata scappare di mano al governo, il presidente Moreno ha decretato lo stato d’emergenza, limitando il diritto di associazione, la libertà d’espressione e l’inviolabilità del domicilio. Successivamente, ha lasciato la capitale, spostando il governo a Guayaquil, principale centro economico del paese, e decretando il coprifuoco dalle 20:00 alle 5:00, in prossimità di edifici dello Stato e altri luoghi sensibili.

Nel frattempo, il 7 ottobre, gli indigeni hanno raggiunto la capitale e si sono uniti alle proteste cittadine, chiedendo al governo di ritirare il pacchetto di riforme approvato.

Con un atto dimostrativo, l’8 ottobre, i manifestanti hanno occupato per qualche ora il Parlamento e chiesto le dimissioni del presidente Moreno. Nelle stesse ore, un mandato di perquisizione veniva emesso contro la Radio Pichincha, una radio pubblica di opposizione al governo Moreno che sta raccontando le proteste di questi giorni. Una ventina di poliziotti ha fatto irruzione nella sede della radio, sequestrando prove relative alle trasmissioni degli ultimi giorni. Il giorno successivo, Arcotel, l’autoritá locale per le telecomunicazioni, ha sospeso le attività della radio, che è stata così costretta a chiudere.

A Quito, cuore delle manifestazioni di questi giorni, le proteste si concentrano soprattutto nel centro-nord della città, dove hanno sede alcune delle istituzioni principali dello Stato. Finora, la repressione da parte di esercito e polizia è stata violenta e indiscriminata, tanto da allertare anche alcuni organismi internazionali, come la Commissione Interamericana dei Diritti Umani che ha manifestato la propria preoccupazione per la violenza esercitata dalle forze dell’ordine contro i manifestanti.

Gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati sparati ad altezza d’uomo da esercito e polizia, ferendo diversi manifestanti e prendendo di mira zone neutrali dove vengono assistiti i manifestanti e i feriti. È quanto accaduto nelle ultime ore nella Casa della Cultura Ecuadoriana e nelle università Cattolica e Salesiana. Secondo quanto riportano i volontari che stanno garantendo una prima assistenza medica in quei luoghi, due bambini e due anziani sarebbero morti per asfissia a causa dei gas lacrimogeni sparati tra i pazienti.

Di fronte alla persecuzione che sta subendo anche il personale medico, la Croce Rossa ha sospeso le proprie attività chiedendo al governo che si riconosca la neutralità dell’organizzazione umanitaria.

E mentre la ministra dell’Interno, María Paula Romo, si è scusata pubblicamente per la repressione nei centri di accoglienza e di prima assistenza medica, in alcune città si registrano saccheggi e atti di vandalismo contro negozi e case.

Al momento, sono circa 800 le persone arrestate e almeno due i morti. Ma gli scontri a Quito non accennano a diminuire. In un comunicato, diramato il 9 ottobre, l’esercito si deresponsabilizza per eventuali episodi violenti che possono accadere nel corso delle manifestazioni. “Gli unici responsabili – si legge nel comunicato – saranno coloro i quali attenteranno contro l’ordine pubblico”.

Intanto, le Nazioni Unite stanno dialogando con l’esecutivo e con la Conaie, la principale confederazione indigena del paese, per provare a mediare tra le parti e arrivare ad un accordo per riportare la calma nel paese. Accordo che, al momento, non è stato raggiunto.