L’economia inizia dal futuro

Di fronte alla crisi epocale prodotta dall’attuale modello, serve un nuovo pensiero economico fondato su obiettivi di lungo termine e una capacità di “intelligenza collettiva” per costruire uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.

di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese

DI FRONTE ALLA CRISI EPOCALE PRODOTTA DALL’ATTUALE MODELLO, SERVE UN NUOVO PENSIERO ECONOMICO FONDATO SU OBIETTIVI DI LUNGO TERMINE E UNA CAPACITÀ DI “INTELLIGENZA COLLETTIVA” PER COSTRUIRE UNO “SVILUPPO ECONOMICO SOSTENIBILE E INCLUSIVO”.

Negli ultimi settant’anni il modello economico di matrice capitalista ha consentito a centinaia di milioni di persone di elevare le proprie condizioni materiali di vita. Tuttavia, questi progressi sono stati ottenuti imponendo un prezzo altissimo sia ai sistemi naturali che a quelli sociali.

Da una parte, inquinamento di aria, terra e acqua, cambiamenti climatici e perdita di biodiversità; dall’altra, livelli di diseguaglianza estrema e delegittimazione delle istituzioni democratiche che, insieme alle storture del sistema finanziario, contribuiscono a dare forza a leader e movimenti populisti che infiammano gran parte dei paesi dell’Occidente, e non solo. È evidente che qualcosa non funzioni e che l’economia deve essere “rivista e corretta” alla luce delle realtà e alle sfide del XXI secolo.

Uno spazio equo e sicuro per l’umanità

Per fare ciò, Kate Raworth, ricercatrice dell’Environmental Change Institute dell’università di Oxford, propone al mondo di ribaltarne l’approccio, facendo ripartire l’economia del futuro, non dalle sue astrazioni, ma dagli obiettivi a lungo termine che l’umanità si è data, per poi chiedersi quale tipo di pensiero economico, e conseguentemente di azione, possono darci più possibilità di raggiungerli.

Questi obiettivi sono oggi chiaramente espressi dai 17 Obiettivi di Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite che, ai fini del nostro ragionamento, posso essere raggruppati e rappresentati attraverso una torta (vedi figura 1).

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Figura 1- SDGs Wedding Cake presentata per la prima volta all’EAT Food Forum di Stoccolma il 13 giugno 2016

Si chiama “SDG Wedding Cake”  ed è fatta di tre strati: il primo raggruppa gli obiettivi relativi alla tutela della biosfera, il secondo quelli relativi al funzionamento delle società umane e il terzo indica lo spazio di movimento per gli attori economici, siano essi produttori, consumatori o pubblici regolatori. Uno spazio di azione che la Raworth, chiama “spazio equo e sicuro per l’umanità” (vedi figura 2).

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Figura 2- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.

Mantenendo la metafora pasticciera, siamo di fronte a una Ciambella che ha come cerchio più esterno i cosiddetti “planet boundaries” (limiti del pianeta) e come cerchio più interno i diritti umani che determinano la sostanza delle nostre democrazie. Al centro lo “spazio equo e sicuro” in cui i popoli della terra possono darsi uno “sviluppo economico sostenibile e inclusivo”.

Una ciambella che, arricchendola di dati, ci spiega perché uno degli assunti più condivisi, mentre si discuteva l’Agenda 2030, era che il “business as usual is not an option anymore” (il business come l’abbiamo sempre fatto non è più un’opzione percorribile). Se si considerano il superamento già avvenuto di 4 su 9 dei limiti del pianeta (vedi figura 3) e la percentuale di abitanti della terra che ancora non godono dei diritti individuali e sociali, così come sanciti dalle principali convenzioni internazionali, diventa palese che il modo in cui abbiamo gestito, e continuiamo a gestire, l’economia e il modo in cui abbiamo fatto, e continuiamo a fare impresa, sono incompatibili con l’ambizione di collocare l’umanità all’interno di uno spazio equo e sicuro e quindi di centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

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Figura 3- Dal libro “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, 2017, Edizione Ambiente.

Cinque fattori per il cambiamento

Sono cinque i fattori chiave attorno ai quali può ruotare il cambiamento: popolazione, distribuzione, aspirazione, tecnologia e governance. Il motivo per cui il tasso di crescita della popolazione mondiale è importante, è abbastanza ovvio: più individui abitano il pianeta, più risorse servono per soddisfare i bisogni e i diritti di tutti. Da qui discende la necessità di stabilizzare la popolazione umana. Come? Aumentando gli investimenti pubblici per la salute e l’assistenza dei neonati e dei bambini, per l’istruzione femminile, per la cura e la libertà di scelta in ambito riproduttivo e, in generale, per riequilibrare i poteri tra i generi in modo che le donne acquisiscano un ruolo centrale nella pianificazione famigliare.

Se la popolazione è rilevante, la distribuzione lo è altrettanto perché la concentrazione di ricchezza e opportunità in capo a pochi spinge il genere umano a valicare entrambi i confini della “Ciambella”. Pensate al 10 % della popolazione più benestante che emette il 45% delle emissioni di gas serra, mentre il 50 % più in difficoltà contribuisce solo per il 13%. O al miliardo di persone che sono malnutrite, per cui basterebbe il 3% delle scorte alimentari mondiali che però si perde nelle pieghe di un sistema agro-alimentare che spreca, dalla fase di raccolto e stoccaggio fino al consumo a tavola, oltre un terzo del cibo prodotto.

Un terzo elemento determinante è l’aspirazione: tutto ciò che le persone ritengono dia qualità alle loro vite e che oggi si misura in particolare in termini di possibilità di consumo e luoghi che abitiamo. Dal 2009, per la prima volta nella storia, oltre metà dell’umanità vive in metropoli e città, e tutte le proiezioni indicano che entro il 2050 il 70% di noi vivrà dentro confini urbani. In città, più che altrove, “veniamo persuasi a spendere soldi che non abbiamo per comprare cose di cui non abbiamo bisogno per suscitare impressioni che non durano in persone che non ci interessano”.

L’inurbamento, però, oltre ad alimentare il consumismo offre l’opportunità di soddisfare i bisogni primari degli individui e delle famiglie, quali alloggi, trasporti, cibo ed energia, in modi molto più efficienti degli attuali. Sul 60% della superficie, che si stima diventerà urbana entro il 2030, si deve infatti ancora costruire e quindi la scelta delle tecnologie utilizzabili (quarto fattore chiave) avrà implicazioni ecologiche e sociali di grande portata: network di impianti a energia solare sui tetti, edifici auto-riscaldanti o auto-rinfrescanti, trasporti pubblici a basso impatto e prezzo conveniente, agricoltura urbana e peri urbana che sequestra carbonio, aumenta la qualità dei cibi e offre nuovi posti di lavoro.

Da ultima è la governance a giocare un ruolo decisivo, dal livello rurale a quello cittadino, dal livello statale a quello regionale e globale. L’innovazione delle forme di governance pubblica e privata che consentano di mediare le relazioni tra genere umano e natura ma anche le differenti aspettative tra Paesi, aziende e comunità, è il fattore che può innescare gli altri quattro, guidandoli verso la transizione ormai non rinviabile.

Siamo tutti coinvolti

L’Economia della Ciambella delinea senza dubbio una visione ottimistica del futuro: un’economia globale che cerca un equilibrio prospero grazie alla sua concezione distributiva e rigenerativa. Tale visione può sembrare ingenua, considerati i drammi che stiamo vivendo, fatti di conflitti violenti, migrazioni forzate e xenofobia dilagante. La possibilità di un collasso sembra assai più concreta.

Eppure, c’è un numero sufficiente di persone che sognano un’alternativa possibile e sono impegnate con tutte le loro forze per realizzarla. La nostra è la prima generazione che ha compreso appieno il danno che abbiamo arrecato al nostro pianeta, la nostra casa comune, e probabilmente è anche l’ultima che ha la possibilità di fare qualcosa. E sappiamo benissimo, come comunità internazionale, che abbiamo la tecnologia, la conoscenza e i mezzi finanziari per porre fine alla povertà estrema in tutte le sue forme.

Come ci ha insegnato Donella Meadows, pioniera della sostenibilità e autrice del libro culto “Pensare per sistemi”, non abbiamo più bisogno di individui smart ma di intelligenza collettiva che eserciti la capacità di un sistema complesso di correggere i propri errori e far evolvere la propria struttura. Si chiama auto-organizzazione ed è una leva formidabile per scatenare un pensiero rivoluzionario.

Se i sistemi economici, che sono complessi, si evolvono, ogni esperimento contribuisce a orientare un nuovo futuro e rende tutti noi protagonisti di questa rivoluzione: quando apriamo un conto corrente in una banca etica e investiamo in nostri risparmi in base al valore sociale e ambientale prima che finanziario, quando dentro il mondo dei GAS ci assumiamo parte del rischio di un piccolo agricoltore e sviluppiamo nuove piattaforme di distribuzione organizzata, quando da imprenditori o manager ci preoccupiamo realmente dei nostri impatti sui lavoratori e le lavoratrici delle nostre catene di fornitura, quando partecipiamo alle campagne dei movimenti politici e di opinione che condividono la nostra visione. Quando facciamo tutto ciò, “siamo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”.

Articolo pubblicato sul numero di Dicembre 2019 del Giornale di Mani Tese.