Come il virus può rivoluzionare il mercato e cambiare in meglio le nostre vite

Una riflessione sulle prospettive economiche, sociali e ambientali nel post quarantena.

di Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese.

Se l’“assembramento” è il male assoluto e il “distanziamento fisico” è il principio precauzionale per eccellenza, allora c’è speranza.

L’economia di mercato, nella sua versione più avanzata, o selvaggia, a seconda dei punti di vista, si fonda sul concetto di assembramento. Assembramento di merci in un unico luogo fisico, il supermercato o il centro commerciale. Assembramento di strutture ricettive su tratti limitati di litorale o aree circoscritte di montagna e riserve naturali. Assembramento di libri, film e musica su di un’unica piattaforma a pagamento. Perché così facendo si abbattono i costi, si massimizzano gli utili, si concentrano le quote di mercato e si apprezzano i listini di borsa.

Il distanziamento fisico è per converso – secondo i canoni del pensiero economico divenuto tradizionale (eviterei, dopo quarant’anni, di utilizzare l’aggettivo neoliberista) – sinonimo di inefficienza e dispersione di valore. Decentralizzare i punti vendita di cibo o di vestiti, magari accorciando la distanza tra chi li produce e chi li consuma. Attrezzare le spiagge e le aree boschive demaniali con strutture e servizi di qualità per tutte le famiglie che vogliono goderne. Incentivare e sovvenzionare la presenza di librerie, sale cinematografiche indipendenti e spazi dedicati alla musica nei centri e nelle periferie delle città, così come nei piccoli borghi, in modo da rendere la cultura una presenza vitale per coloro che vi abitano. Tutto ciò sarebbe un abominio per il mercato ma una manna per la salute pubblica. Sì, anche la cultura diffusa e accessibile sui territori. Perché se è vero che le piattaforme online consentono di ridurre il numero di persone fuori casa, è altrettanto vero che tendono ad isolarle, ad individualizzarne l’esperienza culturale e, con il tempo, a corrodere il senso di comunità e quello di corresponsabilità su cui si poggiano le chance di successo di tutte le misure di prevenzione e contenimento delle epidemie.

C’è quindi la speranza che, non tanto la ripresa, che purtroppo sarà a dir poco selvaggia, della serie si salvi chi può, ma il futuro prossimo dei consumi, e quindi indirettamente delle produzioni, sarà per forza di cose rifondato sul principio del distanziamento e quindi su di una serie di imperativi nominalisticamente antitetici ma sostanzialmente correlati l’uno all’altro: decentrare, rilocalizzare, condividere e partecipare.

L’economia di mercato potrebbe così trasformarsi in un’economia di relazione. Tra chi coltiva la terra e chi si alimenta dei suoi frutti. Tra chi crea moda e chi attraverso di essa esprime la propria personalità. Tra chi genera arte e chi ne gode per arricchirsi d’animo. Tra il genere umano e la natura, in modo da ristabilire un equilibrio di convivenza, di sicuro più importante per il primo che per la seconda.

La chiamo speranza ma forse è qualcosa in più. Di sicuro, grazie al virus, è paradossale dirlo, è una prospettiva economica, sociale e ambientale con cui le istituzioni mondiali dovranno fare i conti. E con una bella spinta da parte della società civile, dei movimenti sociali e della buona politica, non si sa mai che sia la volta buona.