A scuola dell’imprevisto

Dall’incertezza scatenata dalla pandemia una grande lezione di umiltà e di trasformazione sociale.

di Franco Lorenzoni, maestro elementare e scrittore

A bambine e bambini, ragazze e ragazzi è evidente che noi adulti non sappiamo come andranno le cose riguardo alla pandemia, che sta cambiando tanta parte delle nostre vite e delle nostre abitudini e rende incerto persino l’andare a scuola l’indomani. Non era mai accaduto che un numero così alto di scienziati invadessero televisione e web con le loro ipotesi, teorie, statistiche e previsioni. Mai abbiamo assistito in diretta al farsi della scienza riguardo alla cura di cui abbiamo bisogno, con tutte le contraddizioni, i passi falsi e le difficoltà di arrivare a soluzioni certe, efficaci e verificabili, seppur provvisorie.

Ma il non sapere, anche se semina inquietudine, è condizione umana da sempre e potrebbe dare nuovo senso alla scuola e allo studiare, alimentando il desiderio di conoscere e sostenendoci nella fatica dell’imparare. Questa inaspettata lezione di umiltà potrebbe aiutarci a ripensare a tante priorità sballate, che ancora orientano scelte economiche, consumi e abitudini sociali che stanno portando il pianeta al collasso. E allora armiamoci di pazienza e senza indugio andiamo a scuola dell’imprevisto.

La Didattica a distanza, che il riprendere del contagio sta nuovamente imponendo alla scuola superiore, esiste in certo modo da sempre nelle pratiche educative che allontanano gli oggetti di conoscenza privandoli di umore e senso, e nelle relazioni che rimuovono e avviliscono le energie e i corpi vivi di bambini e ragazzi. I corpi di ciascuno di noi, che mescolano nei modi più diversi emozioni e conoscenze, curiosità intellettuali e chiusure.

Confrontarsi con la complessità del mondo e, al tempo stesso, accorgersi e tenere nella giusta considerazione la complessità dei diversi modi di apprendere di ciascuno è la sfida di ogni proposta educativa.

Fra distanziamento fisico e necessità di avvicinare le energie

Un giorno una bambina, con icastica e geniale intuizione, definì il pianeta intero come qualcosa di tuttattaccato. L’espressione era così bella che fu giustamente ripresa e rilanciata perché, quella bambina non aveva solo creato una parola incollandone due, ma stava invitando a una nuova visione, esattamente come i seguaci di Gandhi, dovendo tradurre in italiano una concezione della vita e della lotta politica lontana dalla nostra tradizione, la condensarono in una nuova parola – nonviolenza – che oggi persino l’algoritmo riconosce e non sottolinea in rosso, pur essendo ancora assai lontana dal comune sentire.

Abbiamo tollerato per mesi che il necessario distanziamento fisico venisse assurdamente chiamato distanziamento sociale, mentre tutti sappiamo che solo avviando concreti processi di avvicinamento sociale possiamo cercare di aggrumare le energie necessarie per compiere l’enorme sforzo collettivo che ci permetta di affrontare la gravissima crisi in cui siamo precipitati.

Sforzo che riguarda in primo luogo la nostra immaginazione, perché i bambini, i ragazzi e tutti noi stiamo soffrendo e imparando tantissimo in questi mesi, ma non sappiamo ancora bene cosa stiamo imparando.

I curricoli del rammendo

E allora mi viene in mente che, forse, dovremmo provare a dar forma ed elaborare dei curricoli del rammendo, capaci di riprendere e riannodare i tanti fili sparpagliati di un’esperienza inedita e conturbante che sta mutando diverse cose nella percezione che abbiamo del mondo e delle sue fragilità, ma che ciascuno di noi ha finora percepito a modo suo, solitariamente. Per non correre il rischio di perdere la capacità di elaborare la portata di ciò che sta accadendo e intuirne collettivamente le potenzialità di trasformazione sociale, credo dovremmo ripensare con audacia alle priorità di ciò che insegniamo in questo anno così particolare. Se il curricolo è una “conversazione animata”, che ci aiuta a comprendere come alcune conoscenze possano intrecciarsi alla vita concreta di una classe o di gruppo che apprende, la grande sfida sta nell’accogliere pienamente la dimensione dell’incertezza nel nostro fare scuola.

A quante discipline scolastiche stiamo infatti ricorrendo più o meno consapevolmente in questi mesi, per cercare di capire qualcosa di ciò che sta accadendo?

Matematica e statistica, in primo luogo, per venire a capo del diluvio di numeri che continuano a inondare i telegiornali, ma anche geografia, per inseguire gli spostamenti del virus, e scienze, naturalmente, perché il virus si muove tra le molecole che compongono i corpi nostri e di altri animali. Abbiamo bisogno anche di un approccio empirico all’architettura, per guardare con nuovi occhi agli spazi che abitiamo e ai luoghi della città che sempre più dovremmo invadere con iniziative didattiche inaudite da praticare all’esterno. Particolarmente significativo potrebbe essere un incontro con la letteratura e la storia che ci faccia osservare ciò che accade da lontano, perché tornare alle narrazioni della peste di Manzoni, Boccaccio o Camus, ci potrebbe far comprendere meglio tante dinamiche e comportamenti, e magari approfondire la conoscenza di come si è diffusa l’influenza spagnola che, con i suoi 50 milioni di morti, esattamente un secolo fa doppiò le vittime della Prima guerra mondiale. Nei libri di storia ben poco spazio è dato all’antropologia medica e ai contagi che grande peso ebbero nel passato, provocando crisi di imperi e stermini di intere popolazioni, come accadde ai nativi americani dopo la conquista bianca di quel continente.

Le sfide che ci attendono

Di fronte a noi abbiamo un decennio che necessariamente dovremo dedicare alla cura. Cura dei territori che abitiamo e della Terra, cura delle relazioni reciproche, cura dei contesti educativi, perché a tutti sia data la possibilità di acquisire le conoscenze necessarie e imprescindibili per operare scelte difficili e lungimiranti.

Ma per arrivare a costruire collettivamente una cultura capace di mettere al centro la cura e un mutamento significativo dei nostri comportamenti, come ci chiede con forza la generazione di Greta, dobbiamo essere in grado di elaborare dei veri e propri curricoli dell’incertezza. Curricoli che sappiano mettere al centro le tante domande aperte dal futuro riguardo ai due temi imprescindibili con i quali ci confronteremo nei prossimi decenni: il surriscaldamento globale e la costruzione di una cultura della convivenza all’altezza delle sfide poste dalle grandi migrazioni che investiranno il nostro continente.

Alexander Langer, oltre trenta anni fa, indicava nella necessità di una radicale conversione ecologica la possibilità di riparare i danni inferti agli equilibri del pianeta. Una conversione dell’agricoltura, dell’industria, dei trasporti e dell’abitare è tuttavia possibile solo se saprà coinvolgere ciascuno di noi in prima persona, con la consapevolezza che le risposte le potremo dare solo mutando assai le nostre consuetudini e, prima, i nostri modi di guardare le complessità del pianeta che ci ospita.

C’è tanto lavoro educativo da fare nelle scuole e fuori, con impegno, costanza e lungimiranza.