19/12/2017

Testimonianze raccolte sul campo da ALDO DAGHETTA e MATTEO ANACLERIO di Mani Tese

Zidane ha perso il pallone

Mi chiamo Serifo Balde, ho 23 anni. Nel villaggio mi chiamano Zidane perché ero bravo a giocare a pallone. 

Ho fatto due viaggi di immigrazione clandestina: il primo, nel 2012, è stato verso la Guinea Equatoriale, ho pagato 250mila franchi cfa (1 euro = 656 franchi cfa). Abbiamo attraversato Senegal, Mali, Niger e Nigeria, ma ci è stato impedito di passare nel territorio controllato dalla milizia islamista di Boko Haram, perché era troppo pericoloso. Sono partito ad agosto 2012, sono tornato ad ottobre. Il 5 giugno 2014 invece sono partito per la Libia: volevo fermarmi lì perché pensavo ci fossero più possibilità di lavorare. I trafficanti da Agadez (Niger) alla Libia li chiamano coxeur, sono come degli intermediari. È come un viaggio organizzato, dicono ai migranti quale “compagnia” di mezzi devono prendere una volta che arrivano in ciascun paese. Io ho pagato 400mila franchi. A volte succede che a metà strada ti dicano che i soldi non bastano. Se non paghi ancora vieni portato in una specie di mercato per essere venduto. Dopo essere stato acquistato da qualcun altro e maltrattato ti viene dato un telefono per chiamare a casa: se vuoi sopravvivere e tornare devi pagare, altrimenti vieni utilizzato da questi banditi per le loro necessità. Durante il viaggio un po’ di persone si sono ammalate e sono morte. Abbiamo fatto un funerale e le abbiamo lasciate lungo il tragitto. Dopo 27 giorni sono arrivato ad Al Gatrun (Libia). Dopo Al Gatrun a Sabha dove sono rimasto un anno. Infine sono andato a Tripoli viaggiando per tre giorni nel deserto dentro dei sacchi o coperti da teli di plastica. Se Dio vuole si riesce a passare, se Dio non vuole si arriva in un posto di blocco. Se si viene scoperti si finisce in cella. Sono arrivato a Tripoli l’11 ottobre 2015. Ho trovato una piccola stanza in affitto con altri africani e ho iniziato a lavorare come muratore. Ho messo da parte 900mila franchi. Dopo un anno abbiamo deciso di spostarci in un paese al confine con l’Algeria, a 100 km da Tripoli, perché lì la situazione era di caos totale e noi irregolari venivamo arrestati facilmente. Il 3 ottobre 2016 ero in strada con un amico. Ho visto un’auto puntarci, ci stava venendo addosso. Hanno sparato e mi hanno colpito alla gamba con un fucile. Nessuno mi ha soccorso per ore, perché ero irregolare e quindi sono rimasto lì. Poi è arrivata la polizia, mi hanno portato in ospedale, sono stato operato e dimesso il 27 ottobre. Sono tornato a casa il 23 dicembre. Adesso mi sposto con le stampelle perché la gamba è compromessa. Non ho un lavoro e non riesco neanche più a giocare a pallone.

migrante gamba cicatrice Guinea Bissau Mani Tese 2017
© Mirko Cecchi

 

Un indovino mi disse di partire di lunedì

Mi chiamo Ousmane Saw e sono partito il 7 ottobre 2013 per la Libia.

Ho pagato il viaggio vendendo due vacche per un valore di 350mila franchi cfa ciascuna. Non ho usato portafortuna per il viaggio, ma prima di partire ho consultato un indovino di una tabanka (villaggio, ndr) che mi ha detto che le cose sarebbero andate bene solo se fossi partito di lunedì. Così sono partito di lunedì. Con me c’erano altre 30 persone del mio villaggio, dove vivono in tutto 40 famiglie. Sono passato per il Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger. Gli autisti caricavano 30 persone alla volta a bordo di un “4×4”. Durante il tragitto alcuni dei miei compagni sono caduti dall’auto, ma la macchina non si è fermata e sono stati abbandonati nel deserto. Abbiamo protestato perché si fermassero a recuperarli, ma ci hanno picchiato con dei bastoni. In Libia sono arrivato nella regione di Murzuch, dove sono rimasto un anno, ho fatto il muratore. Poi a Tripoli ho atteso un anno e 10 mesi per salire su una barca per l’Italia. Vivevamo in sette in una stanza con materassi a terra, senza cucina e senza bagno. Andavamo a lavorare, ma dovevamo stare nascosti: ci caricavano su dei camioncini e potevamo essere fermati anche da persone senza divisa che chiedevano i documenti e rubavano soldi e telefono. Quando ho raccolto abbastanza denaro ho pagato un gambiano per andare in Italia. Siamo usciti alle 8 di mattina pensando di partire, ma al posto di trovare il gambiano, è arrivata la polizia libica e ci ha presi tutti. Avevo pagato 400mila franchi a quell’uomo. Ho trascorso un mese in prigione. Eravamo in 40 in una stanza di 4-5 mq, mancava cibo, si litigava per qualsiasi cosa e c’erano risse continue. In totale c’erano mille persone in quel posto e un solo bagno. Utilizzavamo delle bottiglie e bisognava controllare che non te le rubassero. Erano molto ricercate anche le buste di plastica. Quando si usciva per mangiare, si buttava il contenuto e si teneva la busta e la bottiglia. Poi è arrivata la Croce Rossa: ci hanno dato da mangiare e vestiti puliti. Si occupavano anche di identificare le persone. In Libia non c’è il consolato della Guinea-Bissau, per questo molti di noi dicono di essere senegalesi. Così ho fatto anche io e mi hanno portato al consolato senegalese. Grazie alla Croce Rossa, insieme ad altri, sono stato liberato. Ho raggiunto Dakar in aereo, il 20 febbraio 2017 e da lì sono tornato a casa. Sono sposato con un figlio di 5 anni, che aveva un anno quando sono partito. Il viaggio di chi emigra è faticoso e molto costoso. Pensi di fare una cosa buona, ma ti rendi conto che il tempo passa e non è la soluzione giusta. Sarebbe stato meglio usare i soldi per fare altro, ma partire era la soluzione più sensata.

migrante ritorno materasso Guinea Bissau Mani Tese 2017
© Mirko Cecchi

 

L’Europa a qualunque costo

Mi chiamo Samba e ho 27 anni. So leggere e scrivere, giusto il minimo indispensabile.

Sono partito nel 2014 per cercare di migliorare le condizioni di vita della mia famiglia e sono tornato in Guinea-Bissau da qualche mese. Ricordo che prima di partire ho speso più di 100mila franchi cfa per avere bottigliette in vetro con alcune cose strane dentro. Con una dovevo bere, con una lavarmi le braccia, con una il viso. Mi avrebbero aiutato ad avere forza e coraggio. Tempo dopo, a Tripoli, ho pagato per un trattamento simile prima di partire in mare. Per arrivare in Libia sono passato per Mali, Burkina Faso e Niger. Non sono riuscito ad arrivare direttamente a Tripoli e sono rimasto un anno e mezzo a Murzuch, dove facevo i tetti delle case con il ferro battuto. Il lavoro iniziava la mattina presto e finiva la sera tardi. Dormivano a terra in una stanza con 20-25 persone di diverse nazionalità, tranne che libici. Una volta arrivato a Tripoli ho pagato 200mila franchi per salire su un barcone per l’Italia. Ci ho provato quattro volte a partire, per tre volte ho pagato e una volta si sono mossi a pietà e mi hanno fatto salire gratis, ma la polizia libica ci ha sempre bloccato. La terza volta ci hanno attaccatto con le armi dopo un’ora che eravamo in mare. Sulla barca eravamo 150 persone. Ogni volta che ci fermavano ci portavano nella prigione di Zawia e ogni volta dovevo pagare per uscire. In barca, come in cella, era tutto molto difficile: se non capivi cosa ti dicevano venivi picchiato. In uno dei viaggi, quando stavamo attraccando al porto di Tripoli dopo essere stati bloccati, la polizia ha ucciso due dei miei compagni. Uccidono le persone come galline, senza giustificazioni. I corpi li hanno poi buttati in mare. C’era anche una fossa comune vicino a dove ci facevano imbarcare. Io, però, non avevo paura, c’era solo il pensiero dell’Europa: costi quel che costi, l’obiettivo era arrivare lì. Per questo ci ho provato più volte. Avrei continuato, ma ci hanno obbligato a tornare. L’ultima volta è stata più dura in carcere, ma dopo 40 giorni di cella, nel gennaio 2017, sono stato liberato. Era il giorno della partita Guinea-Bissau – Gabon della Coppa d’Africa. Da Tripoli sono stato portato a Dakar e qui, grazie all’aiuto dell’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), sono riuscito a tornare a Gabu e poi al villaggio, dalla mia famiglia. Dovrei dimenticarmi di partire, con quel poco che ho qua dovrei riuscire a fare qualcosa, ma è davvero dura. Ora, però, partirei solo per via legale, in aereo e con tutti i documenti in regola.

Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese dicembre 2017

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