24/07/2018

LAVORARE CON STUDENTI E INSEGNANTI SULLE STORIE PERSONALI E FAMILIARI DI CIASCUNO E AL CONTEMPO IMPARARE A CONOSCERE LE CAUSE STORICHE E SOCIALI DELLE MIGRAZIONI: ECCO LE ‘CHIAVI’ PER SCARDINARE PREGIUDIZI E SEMPLIFICAZIONI.

Diversi paradossi minano la nostra epoca e fanno scricchiolare il sistema economico dominante. Uno, in particolare, è il protagonista delle pagine dei nostri quotidiani: sperimentiamo una globalizzazione dei prodotti e dei modelli di consumo, che viaggiano senza sosta da un capo all’altro del Pianeta e, allo stesso tempo, ci preoccupiamo del 3,3% della popolazione mondiale, di chi decide o è costretto a spostarsi da un territorio all’altro del Pianeta Terra per stanziarsi altrove, i migranti.

Gli anni della grande accelerazione, del cosmopolitismo, dell’uso smodato dei social media vanno di pari passo a un movimento inverso, dalla dubbia modernità, che è un recupero del localismo estremo, di forme di nazionalismo violento, di un controllo militare delle nostre frontiere. Nuove ostilità, che ricalcano vecchi pregiudizi e antiche paure. Ma quali sono le radici di queste fobie? La sensazione di “essere invasi”, di poter essere sostituiti si genera non tanto dallo straniero in sé e per sé, ma soprattutto dal migrante povero.

Come suggerisce un noto studioso della tematica, il professor Maurizio Ambrosini (Migrazioni, Milano, Egea, 2017): «La stessa rappresentazione della diversità e della sua eventuale minaccia per l’identità culturale della società ricevente è quanto meno aggravata dall’abbinamento con la povertà».

Sembra quindi che lo straniero povero sia colui che viene allontanato perché esempio lampante di qualcosa che nel nostro sistema economico non funziona: di quel divario crescente tra ricchi e poveri, dei cambiamenti climatici in atto, di un immaginario di successo che non è più sostenibile e praticabile da tutti.

In questo contesto la strada suggerita è sovente quella dell’integrazione. Si potrebbe quindi puntare l’attenzione chiarendo innanzitutto il significato del termine integrazione, come riportato dal Consiglio d’Europa: «l’integrazione non è una strada a senso unico che addossa tutti gli oneri unicamente ai migranti. È un processo sociale che coinvolge entrambe le parti: i migranti e la società di accoglienza». Questa definizione riporta l’attenzione sul fatto che l’integrazione non è l’assunzione di una medicina istantanea, bensì un processo di cambiamento reciproco, non di responsabilità esclusiva dei migranti. Per questo motivo, ci sembra utile proporre l’uso del termine co-integrazione. Quando uno straniero arriva in Italia, non si immette in uno spazio sociale omogeneo, ma in contesti diversi che generano, a loro volta, diversi tipi di co-integrazione.

L’ “afrobresciano” Tommy Kutye la paura senza un volto

Ne parlo in modo più semplice con i ragazzi con i quali lavoro durante i laboratori di ECG (Educazione alla Cittadinanza Globale) nelle scuole. Ascoltiamo insieme la canzone “Afroitaliano” di Tommy Kuty, nella quale il cantante si descrive come colui che «ha la pelle scura ma l’accento bresciano, che manda una foto ai parenti in Nigeria mangiando una fetta di pizza per cena». Chiedo agli studenti quali siano gli elementi che caratterizzano la loro individualità personale e che sono, apparentemente, molto contraddittori tra loro. I ragazzi si raccontano: chi si sente palermitano di cuore ma milanese di adozione, chi ha preso parti del proprio carattere da mamma e da papà, chi tiene molto alla sua femminilità eppure non manca di avere la passione per i gruppi metal. A partire da queste riflessioni si può pensare che l’integrazione tra due nazionalità non sia poi così distante da quella che si sperimenta tra Nord e Sud Italia. Lavorando sulle nostre storie personali, su quelle dei nostri genitori e dei nostri cugini all’estero, le distanze tra il ‘noi’ e ‘loro’ diventano più plastiche.

Allo stesso tempo, ciò che riemerge dai racconti degli stessi studenti è che l’integrazione è una pratica difficoltosa, in primis per coloro che abitano nei quartieri periferici e popolari della città. «Io vivo a Quarto Oggiaro e negli ultimi anni la situazione sta peggiorando, ci sono interi palazzi vicino a casa mia che sono strapieni di famiglie di immigrati, vivono anche in 10 in una casa sola», dice una ragazza. Eppure, a fianco a lei, nella stessa classe, ci sono almeno sei persone che hanno origini straniere, figli di migranti oppure loro stessi immigrati in Italia da altri Paesi. La studentessa non pensa ai compagni quando parla degli immigrati.

Dal racconto di questa studentessa e dal lavoro in classe sembra emergere, quindi, che la paura verso la povertà e verso ‘l’altro’ diventa più forte nel momento in cui ci troviamo a fianco ad essa senza poterle dare una spiegazione e un volto. Sembra, in sintesi, abbia a che vedere con la paura della confusione e del contagio, per la paura di perdere i propri privilegi, scivolando indietro verso un destino ai margini della società.

Sporcarsi le mani assieme

La soluzione, quindi, non è quella di suggerire un’integrazione precostituita ma di “sporcarsi le mani assieme”, neoarrivati e autoctoni, conoscendo le storie personali e riflettendo sulle cause storico-politiche che determinano le migrazioni (forzate e non). Saper combinare questi due elementi rappresenta una strada per l’integrazione. Quando il migrante è Ahmad, mio alunno, mio amico, che cosa, della sua storia, mi fa sentire minacciato? Allo stesso tempo, volgendo lo sguardo verso il globale, perché per esempio ogni 100 persone sbarcate sulle coste italiane nel 2016, 23 sono di nazionalità siriana? Cosa conosciamo della guerra in Siria e delle sue cause?

Rispondere a queste domande, da una prospettiva locale e globale allo stesso tempo, può richiede certamente “la fatica” di sollevarci dal divano e spegnere il televisore. Richiede tempo per poterci effettivamente relazionare, pazienza per approfondire le storie e i contesti socio-culturali di provenienza, coraggio per ammettere le debolezze del modello di sviluppo che portiamo avanti, le nostre responsabilità e quelle dei nostri governi, per attivarci verso un cambiamento. Diventare «cittadini globali», di primo acchito, può sembrare tanto complesso e contraddittorio quanto essere «afroitaliani»; eppure, integrare insieme questi due elementi, può arricchirci solo nel momento in cui proviamo a unirli davvero nella pratica.

COME L’OKAPI. UNA PROPOSTA PER GLI INSEGNANTI

Mani Tese è partner del progetto “Come l’Okapi”, che ha come capofila Celim e che, insieme ad altre ONG, enti pubblici, enti del terzo settore e associazioni di migranti, mira a creare percorsi formativi per ragazzi e adulti, volti a favorire il dialogo e superare l’omologazione. Il Progetto è attivo in tutta la Lombardia e vuole promuovere percorsi concreti per valorizzare le differenze e per sviluppare un senso di appartenenza alla comunità globale. Per avere informazioni o aderire alle proposte di Mani Tese su Milano: ecg(at)manitese.it

 

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