22/12/2016
Pressata dalle opinioni pubbliche dei principali paesi membri e da governi nazionali sempre più sensibili al consenso elettorale, l’Unione Europea ha accelerato nell’ultimo anno la revisione dei suoi rapporti con i paesi terzi in campo migratorio. Una partita complessa che si trasforma sempre più in una guerriglia politica capace di mettere in discussione mese dopo mese i valori fondanti dell’Unione stessa.
Fin dalle prime mosse, con la conferenza ministeriale sul Processo di Khartoum tenutasi a Roma durante la presidenza italiana dell’UE, l’unico obiettivo comune individuato è stato quello di provare a trasferire in Africa, se non direttamente nei paesi di partenza, le nostre frontiere, bloccando alla partenza i migranti a costo di normalizzare le relazioni anche con quelle dittature da cui migliaia di persone scappano ogni anno.
Per il resto i 28 (ormai 27) non sono d’accordo su niente. Non riescono a trovare un accordo per la gestione dei rifugiati siriani, non rispettano l’impegno alla ricollocazione lasciando Grecia e Italia da sole nella gestione delle richieste di asilo, non trovano un accordo sulla modifica del Trattato di Dublino.
Gli accordi si trovano solo quando il denominatore comune è la messa in sicurezza e la costruzione della cosiddetta Fortezza Europa. Ecco allora che in occasione del Summit UE/UA sulle migrazioni tenutosi il 12 Novembre 2015 a La Valletta, gli Stati Membri, assieme a Norvegia e Svizzera, istituiscono un Fondo Europeo Fiduciario per l’Africa (EUTF). Il principale obiettivo del fondo è quello di sostenere i paesi di origine e transito della rotta del Mediterraneo Centrale per bloccare i flussi migratori, promuovendo progetti di sviluppo che dovrebbero sradicare le cause della migrazione, oltre a sviluppare un sistema di controllo alle frontiere africane che preveda una sistematica identificazione dei migranti in transito. Il fondo si compone di 1,8 miliardi principalmente provenienti da risorse europee già destinate alla cooperazione (77% dal Fondo Europeo allo Sviluppo (EDF), fondi regionali per l’Africa Centrale, dell’Ovest e del Corno d’Africa, da Strumenti della Cooperazione (DCI) e dalla politica Europea di Vicinato). L’Italia contribuisce con 10 milioni di euro posizionandosi così tra i primi due paesi più generosi. Queste risorse, divise per tutti i destinatari coinvolti e per i 5 anni previsti, si riducono a pochi spiccioli, all’incirca 20 milioni di euro all’anno per ogni singolo paese.
Ma la tappa fondamentale del percorso arriva poco dopo il Summit de La Valletta con l’accordo UE/Turchia, meccanismo destinato a fare scuola nel processo di fortificazione europea. Il governo di Ankara, lautamente remunerato, accetta il principio che tutti i migranti (rifugiati e non) che arrivano in Grecia sulla rotta balcanica torneranno in Turchia. Per ogni migrante tornato indietro, il governo turco invierà un migrante siriano nella UE. Questo è l’unico meccanismo che viene ritenuto dai governi europei in grado di scoraggiare le traversate mortali sul mar Egeo. L’Europa di fatto decide di subappaltare alla Turchia la gestione delle sue frontiere davanti al dramma della Siria.
Poco più di 3 mesi dopo questo accordo, la cui applicazione ha comportato non poche violazioni dei diritti umani e dello stesso Trattato di Ginevra, è proprio il nostro Governo a presentare in sede UE una proposta che cerca di riprodurre la stessa collaborazione con i principali paesi Africani di origine e transito dei migranti nella rotta del Mediterraneo Centrale (in primis Tunisia, Senegal, Ghana, Niger, Egitto e Costa d’Avorio) allargandola a un ampio programma di sviluppo con l’Africa, indirizzato agli investimenti in infrastrutture, all’educazione, all’occupazione, all’inclusione economica, sociale e culturale delle fasce e regioni più bisognose.
Alla base della strategia italiana c’è la realizzazione di opere di valore sociale e infrastrutture in questi paesi, e l’emissione di titoli ad hoc (eurobond) con cui finanziarle e facilitare l’accesso di tali stati ai mercati finanziari, in cambio di un maggiore controllo alla frontiere per ridurre i flussi, di una più salda collaborazione nella lotta alla criminalità, della cooperazione sui rimpatri e le riammissioni. A tutto ciò si affiancavano misure quali la creazione di opportunità di migrazione legale per accedere al mercato del lavoro europeo, una prima individuazione di coloro che hanno diritto alla protezione internazionale nei paesi partner, l’istituzione di sistemi di asilo nazionali negli stessi paesi e un nuovo schema di reinsediamenti che compensi il loro impegno in tale direzione.
Nonostante il presidente della Commissione Ue, Claude Juncker, promuova inizialmente a pieni voti l’iniziativa italiana del Migration Compact, in sede europea il documento viene rimaneggiato e ridotto ancora una volta a un mero strumento di controllo dei flussi migratori.
“Un testo lontano dalla proposta iniziale dell’Italia, che non farà altro che creare distanze e incomprensioni tra l’Africa e l’UE”, è questo il commento a caldo del vice ministro degli esteri Mario Giro secondo cui “condizionare gli aiuti dell’UE alla capacità di un governo africano di fermare i flussi migratori non funziona, soprattutto quando i soldi messi a disposizione dell’UE non rispondono alle sue ambizioni”.
Ed eccoci all’ultima tappa della costruzione della Fortezza Europa con la presentazione al Consiglio Europeo dello scorso giugno della Comunicazione della Commissione intitolata “Nuovo quadro di partenariato con i paesi terzi nell’ambito dell’agenda europea in materia di migrazione”, il nuovo schema di accordi bilaterali (i cosiddetti compacts) che verranno sottoscritti con sette Paesi africani (Nigeria, Mali, Niger, Senegal ed Etiopia) e del Medio Oriente (Giordania e Libano) nel tentativo di coinvolgerli nella gestione dei flussi migratori.
Questi nuovi accordi ribadiscono la logica ricattatoria della “condizionalità” nella gestione dei contributi ai paesi partner. Per farla breve: se trattieni a casa tua i migranti ti darò i soldi, altrimenti ti taglio i contributi. A fronte degli aiuti economici l’Europa chiede l’accettazione dei rimpatri, la lotta ai trafficanti e maggiori controlli alle frontiere, fino all’introduzione di controlli biometrici e foto-segnalazioni come quelli che oggi vengono fatti negli hotspot di Italia e Grecia. Come fare a non parlare di esternalizzazione delle frontiere?
di ELIAS GEROVASI, responsabile Progettazione e Partenariati di Mani Tese
Articolo comparso sul periodico di Mani Tese di dicembre