05/09/2017
I GRANDI GRUPPI SOCIETARI SONO SFUGGENTI SUL PIANO GIURIDICO.
OTTENERE DA LORO UN RISARCIMENTO È COMPLICATO PERCHÉ LE STRUTTURE AZIENDALI E LA CONFUSIONE SULLE GIURISDIZIONI NAZIONALI GIOCANO A FAVORE DEL PIÙ FORTE.
UNA SOLUZIONE? APPLICARE LA “GIURISDIZIONE UNIVERSALE”.
di ANGELICA BONFANTI, professoressa associata di diritto internazionale, Università degli Studi di Milano
I Principi Guida su Imprese e Diritti Umani, adottati dalle Nazioni Unite nel 2011, chiamano gli Stati a facilitare l’effettivo accesso alla giustizia delle vittime che hanno subito violazioni dei diritti umani da parte di imprese, in particolare multinazionali (IMN), e che tentano di farne valere la responsabilità civile per ottenere un giusto risarcimento. Le vittime si scontrano infatti con ostacoli sia pratici sia giuridici. Tra i primi, i costi delle cause. Tra i secondi, le regole che incidono negativamente non solo sugli esiti, ma addirittura sulla possibilità di intentare cause contro le IMN, specialmente se le violazioni si sono verificate in Paesi in via sviluppo (PVS), ossia dove generalmente le IMN dislocano fasi della produzione.
Significative a questo proposito sono numerose cause contro le IMN per la violazione del diritto alla vita, alla salute e a un ambiente salubre, alla proprietà, al cibo e all’acqua – lesi anche attraverso la concessione di terre ancestrali indispensabili per il sostentamento di intere comunità e con il supporto di forze di sicurezza private o, ancor più grave, di milizie governative – oltre che i divieti di lavoro minorile e forzato.
Sul piano giuridico, le difficoltà delle vittime a ottenere giustizia sono dovute prevalentemente a due fattori: la struttura delle IMN e i confini delle giurisdizioni nazionali. Quanto al primo aspetto, le IMN sono gruppi societari, in cui ogni ente è giuridicamente autonomo: da un lato, una società madre generalmente localizzata in un Paese industrializzato e, dall’altro, le società controllate delocalizzate in PVS. Questa struttura rende le IMN estremamente sfuggenti sul piano giuridico. È infatti comprensibile che la prima responsabile per i danni commessi nei confronti delle vittime sia la società controllata operante nel Paese in via di sviluppo e che ha materialmente posto in essere le violazioni. Ad esempio, nel caso pendente contro la Royal Dutch Shell – la cui madre è di diritto olandese – per la devastazione ambientale commessa nel Delta del Niger e le relative violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione Ogoni, si tratta della società nigeriana. Ciò non rappresenterebbe un problema, se non fosse che le società controllate non dispongono di un patrimonio nemmeno lontanamente sufficiente ad assolvere agli obblighi risarcitori nei confronti delle vittime. Questi sono stati stimati, ad esempio, nel caso che ha coinvolto la Chevron per fatti analoghi commessi in Ecuador, in 9,5 miliardi di dollari USA. Da qui la necessità di coinvolgere nel procedimento anche la società madre, l’unica in grado di risarcire adeguatamente i danni.
Questo ci conduce al secondo fattore, ossia la possibilità di instaurare il processo davanti ai tribunali del Paese dove ha sede la società madre. In linea di principio, le cause devono essere svolte davanti ai tribunali di Paesi con cui la fattispecie è sufficientemente collegata. Nei casi in esame, ad esempio, i tribunali degli Stati dove si trova la sede della società sussidiaria, dove si sono verificati i fatti, o i tribunali dello Stato di costituzione della società madre, purché se ne dimostri il coinvolgimento nei fatti. Prova questa purtroppo spesso diabolica.
Rimarrebbe un’ultima possibilità, ossia quella di considerare queste violazioni talmente gravi da giustificare l’applicazione della cosiddetta “giurisdizione universale”, ossia l’esercizio del potere giudiziario anche in mancanza di collegamenti sufficienti con i fatti contestati, al fine di garantire alle vittime l’accesso alla giustizia, altrimenti frustrato, e il giusto risarcimento. Questa soluzione è stata applicata per decenni negli Stati Uniti, sulla base di un provvedimento (Alien Tort Statute) purtroppo inesorabilmente censurato dalla Corte Suprema nel 2012, proprio con riferimento al caso Shell per i fatti commessi in Nigeria e contestati davanti alle corti federali statunitensi pur in mancanza di un collegamento forte con il territorio americano. Tra i principali sostenitori dell’interpretazione restrittiva dello Statuto non solo le associazioni industriali, ma anche il governo statunitense e gli Stati europei – Olanda, in primis – che si sarebbero altrimenti visti spogliare del diritto di giudicare le “loro” IMN.
Sul versante europeo, il cosiddetto “Regolamento Bruxelles I bis” non offre margini di flessibilità molto più ampi, salvo consentire agli Stati membri, quando i convenuti non hanno sede in Europa, di estendere la giurisdizione dei loro tribunali sulla base di collegamenti più deboli con il territorio nazionale. Questo è proprio il caso delle società sussidiarie delle IMN, come nella causa contro la Shell, nell’ambito della quale i tribunali olandesi si ritengono competenti a decidere della responsabilità civile della società controllata nigeriana per le violazioni dei diritti umani configurabili alla luce delle norme previste dal diritto nigeriano.
È pertanto più che opportuno il richiamo rivolto alla comunità internazionale dai Principi Guida delle Nazioni Unite. Occorre tuttavia ricordare che i Principi Guida non sono vincolanti e le indicazioni contenute in questa materia sono piuttosto vaghe: essi invitano, senza però specificare come, gli Stati a modificare i loro ordinamenti interni in modo da rendere più facile l’attribuzione della responsabilità giuridica all’interno delle IMN e facilitare l’instaurazione dei processi nelle relative cause, permettendo così di superare le difficoltà affrontate dalle vittime. L’ultima parola rimane comunque agli Stati, alla cui politica legislativa è totalmente e discrezionalmente affidata la responsabilità di adottare soluzioni in grado di reprimere violazioni tanto efferate quanto difficili da perseguire.
Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017