Attualità

La crisi in Sud Sudan: guerra etnica?


07/01/2014

Da diverse settimane ormai, la neonata Repubblica del Sud Sudan è attraversata da violenti scontri e si parla di una possibile guerra civile.

Il 15 dicembre un diverbio tra le truppe della guardia presidenziale nella capitale Juba ha prodotto un’escalation di violenza che si è rapidamente estesa a tutto l’esercito e, successivamente, alle altre città principali. Le due fazioni in lotta fanno capo rispettivamente a Salva Kiir Mayardit, il Presidente della Repubblica, e a Riek Machar Teny, ex vice presidente deposto ad agosto e attuale leader di un gruppo di politici di opposizione.

Gli scontri tra l’esercito regolare, il Sudan People’s Liberation Army, sotto il controllo di Kiir, e i gruppi ribelli vengono dipinti sempre più in chiave etnica da buona parte della stampa internazionale, che riporta allarmanti notizie di uccisioni di massa e fosse comuni. Anche se è innegabile che la dimensione etnica dello scontro tra Dinka (considerati fedeli a Kiir) e Nuer (considerati fedeli a Machar) abbia assunto un ruolo centrale nel conflitto, le cause dell’attuale crisi non possono essere comprese se non attraverso un’analisi più approfondita dei giochi di potere nel partito di governo che hanno caratterizzato la politica sud sudanese fin dalla firma dell’accordo di pace nel 2005.

Il Sud Sudan è diventato indipendente dal Sudan nel 2011, dopo aver combattuto una guerra civile lunga più di 20 anni e aver firmato un accordo di pace nel 2005 che istituiva un governo semi-autonomo per la regione meridionale. Fin dalla sua creazione, il Governo del Sud Sudan è stato presieduto da Salva Kiir Mayardit, un Dinka della regione del Bahr el Ghazal, con Riek Machar Teny, Nuer della regione dell’Upper Nile, come vice presidente. I rapporti tra i due, tuttavia, non sono mai stati facili.

Nel 1991, in piena guerra civile, Riek Machar ha provocato la scissione del movimento ribelle, il Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A) tentando di assumerne la guida al posto del suo leader storico, John Garang, un Dinka di Bor, e dando vita ad un altro movimento che si è poi alleato col governo di Khartoum contro l’SPLM di Garang. Gli scontri tra le due fazioni sono rapidamente degenerati in scontri tribali, provocando decine di migliaia di vittime. Nonostante ritorno di Riek Machar all’SPLM nel 2002, la sua cooptazione nel Governo del Sud Sudan e i suoi sforzi di promuovere un linguaggio anti-tribale e riconciliatorio tra le popolazioni sud sudanesi, la memoria di quegli eventi è ancora molto viva.

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I contrasti tra Kiir e Machar si erano aggravati nel corso della prima metà del 2013, quando Machar ha dichiarato che si sarebbe candidato alla leadership dell’SPLM e alle elezioni del 2015. Ad agosto, Kiir ha usato un rimpasto di governo per liberarsi non soltanto del suo storico vice presidente, ma anche di tutti i ministri appartenenti all’area politica del suo avversario, il quale ha così assunto più esplicitamente la leadership dell’opposizione. Questa mossa ha causato un crescendo di tensione che è sfociata in una conferenza stampa del gruppo di opposizione per denunciare le ‘tendenze dittatoriali’ di Kiir e chiedere la riforma delle strutture di partito in senso più democratico e meno verticistico. L’abbandono del National Liberation Council, (l’assemblea di partito) da parte del gruppo di opposizione 24 ore prima che gli scontri a Juba avessero inizio, motivata con l’assenza di un clima di dialogo,  è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

In sole 48 ore di scontri nella capitale, il numero di vittime era già arrivato a 500 e il numero cresce. Lo scontro cominciato all’interno della guardia presidenziale si è trasformato rapidamente in una vera e propria ribellione, con tanto di accuse di tentato colpo di stato. Interi battaglioni dell’esercito si sono ammutinati dichiarando fedeltà a Riek Machar e prendendo il controllo di diverse città: Bor, Mongalla, Bentiu, Malakal. In queste aree, attacchi mirati alla civile di etnia dinka hanno fatto seguito a quelli nella capitale contro la popolazione di etnia nuer da parte dell’esercito (la Sudan People’s Liberation Army). Nonostante la leadership politica di entrambe le fazioni sia etnicamente eterogenea ed entrambi i leader rilascino occasionalmente dichiarazioni di condanna alla violenza etnica, il richiamo all’appartenenza etnica resta comunque il più formidabile strumento di mobilitazione di una popolazione fortemente segnata dagli anni della guerra.

Negli ultimi giorni, Kiir e Machar hanno espresso la disponibilità ad iniziare negoziati di pace, e i Paesi della regione (Etiopia, Kenya e Uganda) si sono offerti di mediare gli incontri. Ancora nessun progresso è stato fatto, tuttavia, e mentre il numero delle vittime continua a crescere, diventa sempre più chiaro che la crisi in Sud Sudan dovrà essere risolta non soltanto dell’arena militare, ma anche e soprattutto in quella politica.

Di Sara De Simone

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