13/09/2017
di JEROME CHAPLIER e CHIARA PETTINELLI, European Coalition for Corporate Justice*
LE IMPRESE, SOPRATTUTTO LE GRANDI MULTINAZIONALI, OGGI OPERANO IN UNA “BOLLA DI IMMUNITÀ” E RIESCONO FACILMENTE A SFUGGIRE A REGOLE ANCORA POCO VINCOLANTI. E’ ORA CHE GLI STATI, EUROPA IN TESTA, ASSUMANO IMPEGNI PRECISI E UNA LEADERSHIP MORALE. LE DICHIARAZIONI DI INTENTI, DA SOLE, NON SERVONO PIÙ.
Potremmo non avvertirli da qui, visto che succedono a migliaia di chilometri dal nostro quotidiano, ma gli abusi aziendali sono una realtà fin troppo concreta e molto spesso conseguenze di decisioni prese in Europa.
Una decisione presa a Parigi di estrarre petrolio in un paese africano senza tenere conto delle condizioni di vita di chi lo abita; una presa a Londra di subappaltare la produzione di capi di abbigliamento pronto moda a un fornitore del Bangladesh, imponendogli prezzi antieconomici e tempi di consegna ristrettissimi; una presa a Berlino di finanziare una diga in America Latina che sottrae terre ancestrali alle comunità locali; una presa a Bruxelles di vendere sistemi di sorveglianza ad un regime dittatoriale per usarli contro i suoi oppositori.
Questi sono solo alcuni esempi di come le aziende europee possano diventare complici in gravi violazioni dei diritti umani.
Come ha sottolineato il professor John Ruggie, ex rappresentante speciale delle Nazioni Unite per le imprese e i diritti umani, qualsiasi diritto umano può essere colpito da un’attività di impresa e qualsiasi settore economico o tipologia di impresa riguarda i diritti umani.
Per questa ragione è fondamentale che il tema di come rendere le imprese legalmente responsabili dei loro impatti sull’ambiente e sui diritti fondamentali diventi una priorità per l’Unione Europea e i suoi Stati Membri.
Aumenta il potere delle multinazionali, ma non la loro responsabilità sociale
Sulla scia della crescente integrazione dell’economia mondiale, le società multinazionali sono diventate attori sempre più influenti sulla scena globale.
Considerato il contributo potenzialmente positivo che queste possono apportare allo sviluppo economico e sociale delle aree in cui operano, molti Paesi del Sud del mondo fanno a gara per attrarne gli investimenti e nel fare ciò tendono ad ammorbidire gli standard nazionali proprio in tema di diritti umani e ambientali. E dove esistono leggi più rigide, spesso non c’è la capacità istituzionale di farle rispettare.
Si viene così a creare un vuoto di governance per cui le aziende si trovano ad operare fuori dalla giurisdizione dello Stato in cui hanno sede legale e dentro un sistema di regole, deboli, dello Stato che ospita le sue operazioni industriali e commerciali. Alcuni arrivano a chiamarla “bolla di immunità”: uno spazio senza rischio di sanzioni e senza dovere di rendere conto ad alcuno che, a giudicare dalle sempre più complesse architetture societarie, diventa un vero e proprio obiettivo di performance per molti direttori generali e responsabili di filiale.
Dopo dieci anni di dibattito su come migliorare la responsabilità legale d’impresa sia a livello europeo che internazionale, c’è un fatto ormai fuori discussione: il rispetto dei diritti umani da parte delle imprese rappresenta una responsabilità per queste ultime che deriva da un’aspettativa “universale” della comunità internazionale. Ci sono, detta in altro modo, delle aspettative sociali generalizzate su cui bisogna basare la regolazione del tema.
La discussione si è di conseguenza spostata su quale sia il miglior approccio per rispondere a questa aspettativa. Il primo approccio, ampiamente sostenuto dalle imprese e dai governi, spinge le aziende – singolarmente o per settore – ad adottare soluzioni basate sulla convinzione che sia il mercato ad incentivare un cambiamento nelle pratiche aziendali. Dall’altro lato, un secondo approccio sostiene la promulgazione di leggi che definiscano chiaramente cosa sia e cosa implichi la responsabilità sociale d’impresa, che forniscano alle parti interessate dei meccanismi di reclamo per i torti subiti e che specifichino quali errori ed omissioni innescano sanzioni amministrative, civili e penali.
Sebbene questi due approcci siano complementari, nel corso del tempo il primo – fatto di misure volontarie – si è gradualmente imposto, portando all’adozione di strumenti non giuridicamente vincolanti come il “Global Compact”1 delle Nazioni Unite.
Questo approccio tuttavia, non ha avuto successo. Il numero di scandali aziendali infatti è cresciuto e l’impunità regna diffusa. Gli esempi sono molteplici: dal crollo della fabbrica tessile Rana Plaza nel 2013, che ha provocato oltre 1200 vittime, alla discarica di rifiuti tossici nel 2006 in Costa d’Avorio, che ha causato la morte di 17 persone e il ferimento di altre 30 mila; dalle continue fuoriuscite di petrolio nel Delta del Niger che, de facto, costituiscono un ecocidio, allo scandalo della Volkswagen, che dimostra come non solo abbiamo bisogno di standard più rigidi, ma che questi devono essere correttamente attuati e controllati.
E’ giunta dunque l’ora che gli Stati assumano la leadership nel colmare queste gravi e profonde lacune nella protezione dei diritti umani.
Nel 2011, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato i Principi Guida su Imprese e Diritti Umani delle Nazioni Unite2 (ne parliamo in dettaglio a pag. 6). In più circostanze, questi Principi Guida sono stati descritti come “la fine dell’inizio” poiché con la loro approvazione il dibattito si è finalmente spostato dal “perché” a “in che modo” le imprese devono comportarsi per agire responsabilmente. Sei anni dopo, rimangono solo timidi segnali di questa nuova epoca: l’UE non ha ancora presentato il suo piano di azione e quei pochi Paesi europei che lo hanno fatto3, sono stati seriamente criticati perché non hanno affrontato adeguatamente le lacune più manifeste. Il piano d’azione italiano4 per esempio, si limita a una mera sintesi dei processi in corso e degli obiettivi già esistenti, incorniciati da impegni troppo vaghi.
In particolare, sono due “gli elefanti nella stanza” che pochi hanno il coraggio di affrontare. Da una parte c’è la questione di come rendere pratica diffusa la “due diligence” sui diritti umani. Si tratta di un processo che aiuta le aziende ad identificare, prevenire, mitigare e rispondere dei loro impatti negativi sulle società e sull’ambiente. Tale processo migliorerebbe la valutazione dei rischi delle imprese e la loro gestione, e aiuterebbe le autorità statali a compiere il loro dovere di protezione dei diritti umani. (vedi articolo a pag.8).
Dall’altra parte, c’è il problema di come abbattere gli ostacoli incontrati dalle vittime quando cercano di ottenere giustizia. Poche aziende prevedono meccanismi interni di reclamo che garantiscono un rimedio efficace per i ricorrenti. Se invece questi ultimi decidono di fare ricorso a un tribunale, sia nel loro Stato che in quello in cui l’impresa ha il proprio quartier generale, si trovano quasi sempre ad affrontare una serie di ostacoli procedurali e finanziari spesso insormontabili. Un accesso alla giustizia che sia efficace ed imparziale dovrebbe essere elemento cardine di qualsiasi stato di diritto, ma per la maggior parte delle vittime di abusi aziendali nel Sud del mondo questa è una battaglia spesso persa in partenza. (vedi articolo a pag.12).
Nonostante la persistente impunità delle aziende, bisogna tuttavia riconoscere che negli ultimi diciotto mesi qualcosa si è tornato a muovere nella giusta direzione.
Sul fronte della trasparenza, ci sono state una serie di riforme promettenti come per esempio l’adozione nel Regno Unito della legge contro le nuove forme di schiavitù5, e la nuova direttiva europea sulla rendicontazione non finanziaria. Quest’ultima obbligherà 8000 grandi aziende europee e società finanziare a dichiarare annualmente i rischi che corrono in materia ambientale e sociale, nel trattamento dei dipendenti, nel rispetto dei diritti umani, rispetto gli abusi d’ufficio e la corruzione. La trasparenza su questo tipo di informazioni non sarà una panacea (la direttiva infatti non crea l’obbligo di affrontare gli impatti e i rischi ma solo di essere trasparenti a riguardo) ma rappresenta un primo passo verso l’integrazione di questi temi nelle strategie di business.
Altre iniziative prevedono l’obbligo per le imprese di identificare, prevenire, mitigare e rispondere dei loro impatti sulla società e sull’ambiente, nelle loro filiere di produzione e commercializzazione6. Alcuni esempi di questo tipo di normative sono il nuovo regolamento Europeo sui minerali estratti in zone di conflitto7, la proposta di legge olandese sulla “due diligence” contro lo sfruttamento del lavoro minorile8, la “iniziativa multinazionali responsabili”9 in Svizzera e la legge francese sull’obbligo di vigilanza10, del febbraio 2017, la prima in Europa, che secondo molti esperti è destinata a innescare un positivo effetto a catena nell’intero continente, stimolando altri governi ad avviare riforme altrettanto coraggiose.
A livello internazionale è fondamentale che la realizzazione dei Principi Guida nei singoli Paesi vada di pari passo con lo sviluppo di norme sovranazionali che rendano il quadro giuridico di riferimento sempre più solido e allineato al carattere trans-nazionale delle corporations. In tal senso è da giudicarsi assolutamente meritevole di attenzione e di supporto il gruppo di lavoro apertosi a Ginevra in seno al Consiglio ONU per i diritti umani per giungere entro pochi anni a un trattato vincolante delle Nazioni Unite11 in materia di imprese e diritti umani. Si tratterebbe di uno strumento capace di fermare sul nascere gli abusi aziendali, integrando o colmando le vigenti normative nazionali e creando nuovi meccanismi di accesso alla giustizia.
Nel corso degli ultimi due anni, diverse istituzioni internazionali ed europee, quali l’ONU, l’OSCE12, il Consiglio europeo13, il Parlamento europeo14 e il G715 hanno sottolineato l’importanza e l’urgenza di avvicinarsi a filiere più responsabili, mostrando un terreno particolarmente fertile per una azione politica ad ampio raggio di questo tipo.
Tirando le fila del ragionamento, possiamo dire che la mancanza di leadership e di coordinamento, insieme ad un approccio incoerente, ha portato a dei progressi a macchia di leopardo. Sei anni dopo l’adozione dei Principi Guida infatti, non possiamo ancora dire che le condizioni delle vittime di abusi aziendali siano migliorate, che le comunità abbiano più strumenti di negoziazione con le imprese private e che i “difensori dei diritti umani” non siano più a rischio di perdere la vita a causa della loro resistenza.
É giunto il momento che le belle dichiarazioni politiche si trasformino in azioni concrete. Con l’Europa ad un bivio, gli Stati membri hanno l’opportunità di mostrare come i diritti delle persone possano diventare il fulcro di un nuovo progetto di integrazione politica, economica e sociale. Possono e devono dimostrare quel coraggio e quella visione necessari per plasmare una nuova Unione Europea. Una Unione che sia leader globale nel garantire che il rispetto e la promozione dei diritti umani diventi parte essenziale del fare business.
1 See United Nations Global Compact (New York, 26 June 2001)
2 John Ruggie, “United Nations Guiding Principles on Business and Human Rights” (21 March 2011)
3 Danimarca, Finlandia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Italia, Germania, Polonia
4 Piano d’Azione Nazionale su Impresa e Diritti Umani 2016 – 2021 (Roma, 1 Dicembre 2016)
5 Parlamento del Regno Unito, Modern Slavery Act 2015 (26 marzo 2015)
6 Parlamento Europeo e Consiglio, Direttiva 2014/95/EU (22 ottobre 2014)
7 Commissione Europea, ‘Combatting Conflict Minerals’ (16 marzo 2017)
8 India Committee of the Netherlands, ‘Child Labour Due Diligence Law for companies adopted by Dutch Parliament’ (8 febbraio 2017)
9 Iniziativa Multinazionali Responsabili
10 National Assembly of France, “Entreprises: devoir de vigilance des entreprises donneuses d’ordre”
11 Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite , ‘open-ended intergovernmental working group on transnational corporations and other business enterprises with respect to human rights’
12 OECD, ‘Guidelines for Multinational Enterprises’ (2011)
13 Consiglio Europeo, ‘Council conclusions on business and human rights’ (20 June 2016)
14 Parlamento Europeo, ‘Corporate liability for serious human rights abuses in third countries’ (2015/2315 (INI)
15 G-7 Leaders’ Declaration (Schloss Elmau – Germany, 8 June 2015)
*Articolo comparso sul Giornale di Mani Tese di maggio 2017