20/08/2012
A venti anni dallo storico vertice di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, lo scorso giugno si è svolto nella città carioca un nuovo summit delle Nazioni Unite. L’obiettivo era definire una mappa di azioni concrete per far fronte alle gravi emergenze ambientali che affliggono il pianeta.
Al centro del vertice la definizione di economia verde, pensata come una via di uscita dalla crisi per i paesi industrializzati e una strada sostenibile su cui incamminarsi per quelli emergenti e più poveri. Già alla vigilia del vertice, però, la presidenza brasiliana ha chiuso i giochi negoziali, forzando un compromesso al ribasso che ha lasciato tutti scontenti.
La dichiarazione finale ha confermato a stento i principi sanciti venti anni fa, in particolare quello di responsabilità condivisa ma differenziata tra stati ricchi e poveri. Ma le economie avanzate, oggi pesantemente indebitate, non hanno preso nessun impegno per finanziare una transizione sostenibile nei paesi del Sud del mondo. Entro i prossimi due anni un nuovo processo in ambito Onu discuterà su come finanziare lo sviluppo sostenibile secondo nuovi obiettivi che sostituiranno quelli di sviluppo del millennio, probabilmente non raggiungibili al 2015.
In cambio le realtà in via di sviluppo hanno accettato di sdoganare una definizione di economia verde incentrata sulla creazione di meccanismi di mercato che permettano di commerciare i “beni naturali” e trasformarli in beni finanziari. Una finanziarizzazione della natura che avrà conseguenze pesanti per le popolazioni locali, comunità indigene in primis, la cui sopravvivenza dipende dalla gestione diretta dei propri “beni comuni naturali”.
Si chiude amaramente un ciclo storico, che lascia le Nazioni Unite con poca credibilità nel mare in tempesta delle crisi. Oggi anche l’unico consesso democratico globale concede legittimità all’economia verde di mercato, a vantaggio del grande business e dei mercati globali. Per i movimenti e la società civile mondiale la strada diventa sempre più in salita.