09/12/2020

di Cesare Moreno, Presidente Associazione Maestri di Strada onlus Napoli

Non so bene cosa sia il depotenziamento scolastico. Secondo quello che sento ripetere è la riduzione delle risorse economiche disponibili, la percentuale di PIL dedicato, la caduta del prestigio sociale dei docenti. Può darsi, ma, secondo il mio punto di vista, c’è innanzitutto una causa interna: la scuola ha cominciato ad andare giù verticalmente quando ha smesso di essere considerata un agente di trasformazione sociale molti decenni orsono quando, esaltati dal successo economico – prima la ricostruzione e poi il boom economico –, tutti, e prima di tutti gli insegnanti, hanno cominciato a pensare che il cambiamento dei destini personali fosse affidato allo sviluppo industriale e all’inevitabile sviluppo dell’occupazione e dei ‘corpi intermedi’ quali sindacati e associazionismo politico. Gli stessi movimenti ‘rivoluzionari’ nati alla fine degli anni Sessanta erano considerati e si consideravano un frutto dello sviluppo e ne sono stati a rimorchio. Molte iniziative innovative riguardanti la scuola – la stagione dei decreti delegati a metà anni 70, le innovazioni riguardanti ‘la governance’ della scuola – nascevano nel solco di quella stessa mobilitazione politica culminata 20 anni dopo con la rovinosa “fine della Prima Repubblica”. Gran parte di questi movimenti che hanno visto la mobilitazione di docenti e studenti presto hanno perso la presa sociale e ancora non capiscono il perché: vivono tra nostalgia del passato e vani tentativi di ripristinarne i fasti attraverso ‘piattaforme’ e rivendicazioni. Se devo dire di chi è la responsabilità politica di tutto questo, dico che riguarda l’intera classe politica che nelle sue diverse fazioni – dall’estrema sinistra all’estrema destra – ha condiviso, da sponde opposte, l’idea di una scuola fatta di ‘vestali’ o araldi del sistema socioeconomico vincente o di un cambiamento trainato dai partiti. Se la scuola e i corpi intermedi che in essa operano si fa ancella del sistema, essa è destinata a rovinare quando il sistema non tiene più in termini economici e sociali. Oggi l’idea dominante di chi vorrebbe il ritorno della scuola a un ruolo centrale è la rivendicazione economica di risorse strutturali e la rivendicazione sindacale di maggiore occupazione e minore carico di lavoro.

Le ambizioni disperse

Il modo in cui viene trattata la dispersione scolastica secondo il mio punto di vista è emblematico di uno slittamento del significato dei fenomeni veramente esemplare. In origine c’era la cosiddetta mortalità scolastica e il dovere dell’istruzione punito – in modo peraltro risibile – a norma di legge, e una vasta letteratura che descriveva il fenomeno come frutto della miseria e dell’assenza di risorse; e già in questo modo piuttosto che esaltare la volontà di riscatto da parte dei poveri se ne avallavano le tendenze depressive alla passività clientelare e all’attesa messianica di una salvezza di seconda mano. L’atteggiamento pietoso o rivendicativo ha ceduto rapidamente il posto al determinismo sociale ossia all’idea che i ‘condizionamenti sociali’ impedissero alla scuola di essere efficace, al discorso “tu non sai cosa hanno alle spalle”. L’idea che la scuola complessivamente dovesse promuovere il cambiamento sociale e che i dispersi rappresentavano solo la punta dell’iceberg dell’impegno sociale della scuola, è stata sostituita dall’idea “nessuno deve rimanere indietro” “bisogna operare discriminazioni positive” per compensare lo svantaggio. E tutte queste cose piuttosto che negare lo spirito competitivo che stava intossicando la scuola lo confermavano rivendicando un qualche sostegno per potersi allineare egualitariamente sui blocchi di partenza di una corsa senza traguardo.

Questo è stato l’inizio di un processo di sfaldamento e di balcanizzazione in cui è diventato prioritario l’istituire aree protette, piuttosto che sostenere le capacità trasformative generali, reclamare protezione ope legis piuttosto che promuovere solidarietà umana come base irrinunciabile dell’alleanza educativa, perdersi nei meandri di innumerevoli forme di prepotenze e discriminazioni piuttosto che imparare ad ascoltare, a prevenire e ridurre i conflitti.

I diritti da esigere, le opportunità come bussola

E non è finita. Persino la pandemia è occasione per ribadire le spaccature, le divisioni, rivendicare un angolo un po’ più fresco mentre la casa brucia, fare rivendicazioni a tanto al chilo piuttosto che promuovere un cambiamento qualitativo del paradigma educativo.

Bisogna cambiare il linguaggio, i concetti che attraverso esso si esprimono, le realtà fattuali significanti di quei concetti. Diritto allo studio o diritto all’istruzione sono espressione da un lato di diritti formali dall’altro di una idea del ruolo della scuola che istruisce solo, ancora una volta ancillare rispetto alla società. Nella nostra coscienza collettiva non è ancora entrata la differenza tra diritti formali e diritti esigibili, tra diritti e opportunità; nella nostra coscienza collettiva non è entrata l’idea che la scuola è per sé, che in essa l’allievo si presenta a riscuotere un diritto esigibile piuttosto che contemplare il garante istituzionale di un diritto formale; la scuola è il luogo in cui ciascuno deve trovare l’opportunità di essere se stesso, scoprire e valorizzare le proprie risorse, essere e diventare umano in una relazione educativa, che porta ciascuno oltre i propri limiti.

Con la dispersione siamo a buon punto: con la chiusura delle scuole e la grande difficoltà a riaprirle si sta rendendo evidente, per chi adotta il punto di vista educativo, che il corpo grande della scuola non è in grado di prendersi cura dei suoi allievi in carne e ossa, che stavolta è la scuola stessa che si è dispersa tra infinite didattiche a distanza, connessioni deboli che limitano persino la partecipazione agli organi collegiali, una miriade di decreti e ordinanze che non riescono a stabilire le condizioni logistiche perché la scuola possa riprendere il suo ruolo.

La dispersione è fatta da ruoli intercambiabili: dopo la guerra c’erano alcuni dispersi in Russia che in realtà s’erano fatta un’altra famiglia, e c’era un paese che s’era dimenticato di loro mentre cercavano di rientrare da una disastrosa campagna militare: sono momenti in cui non si capisce se il disperso è lo Stato che ha abdicato o la persona che si sente abbandonata.

Così oggi non sappiamo: sono dispersi gli allievi che non vanno a scuola o la scuola che non riesce a farsi ritrovare? Forse siamo tutti dispersi: una buona premessa per ritrovare la solidarietà umana e riprendere da questo punto una crescita che ponga al centro l’uomo prima dell’economia e prima del mercato. O come diciamo noi maestri di strada: i sogni prima dei bisogni.

trova tutti gli articoli
 
Commenti

iscriviti alla nostra newsletter
Ricevi i nostri aggiornamenti