04/12/2020
Quest’anno mia figlia (la terza) ha iniziato la prima elementare. Ha passato tutta l’estate a immaginarsi come sarebbe stato. Ne parlava spesso, probabilmente per prepararsi interiormente a un passaggio che percepiva giustamente come molto importante. All’arrivo del grande giorno era pronta, curiosa e convinta. Quando è stato il momento di metterci la mascherina per uscire, lei lo ha fatto con normalità, senza nessuna esitazione, come se avesse dovuto mettere un cappello. Per me e mia moglie, invece non è stato così facile. Stavamo accompagnando nostra figlia all’inizio dell’avventura della scuola con una maschera sul volto, un gel igienizzante in tasca e la raccomandazione di seguire bene tutte le indicazioni che avrebbero dato le maestre. Mentre tornavamo, da una parte orgogliosi per il suo atteggiamento così positivo, ci siamo chiesti che segni lascerà questo distanziamento sulla sua capacità di avere delle relazioni sociali sane, di vivere bene con e insieme agli altri.
Che impronta può rimanere in una bambina che sperimenta quel grande centrifugato di scoperta, socialità e apprendimento che è la scuola in un tempo in cui un abbraccio è considerato una cosa pericolosa e una stretta di mano una mancanza di rispetto? È uno dei grandi temi con cui tutto il mondo dell’educazione è chiamato a fare i conti, e nemmeno il più urgente.
Piccoli che Valgono!
Qualche giorno dopo, con i colleghi con cui seguo il progetto di Mani Tese “Piccoli che Valgono!”, che ha come obiettivo il contrasto della povertà educativa in cinque regioni italiane, abbiamo iniziato a riprendere i contatti con gli Istituti per proporre la continuazione dei nostri percorsi sulla valorizzazione del sé e sulla consapevolezza che i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riguardano tutte le bambine, i bambini, le ragazze e i ragazzi e vanno fatti rispettare. Sapevamo che sarebbe stata un’impresa, e infatti, nonostante la disponibilità e gli attestati di stima da parte di molti insegnanti e dirigenti scolastici, siamo stati costretti a prendere atto della difficoltà oggettiva di far partire qualsiasi percorso “esterno”. Troppa incertezza, e una risposta ricorrente: scusate, in questo momento siamo troppo presi da altro.
Questa frase mi ha ricordato una vignetta divertente che mi era rimasta impressa. Nell’immagine ci sono due uomini primitivi che si affannano a spingere un carretto le cui ruote sono quadrate. Di fianco a loro un terzo uomo si presenta offrendo delle ruote a forma circolare, e i due danno la stessa risposta che abbiamo ricevuto noi: scusa, non abbiamo tempo, siamo troppo occupati.
L’intero mondo dell’istruzione è in forte crisi, ma paradossalmente è molto complicato riuscire a dargli una mano. Fin dall’inizio della pandemia è apparso subito evidente che la scuola difficilmente può uscire da sola dall’angolo. Sono troppi e troppo grandi i problemi; alcuni strutturali, ormai calcificati nel tessuto del sistema, altri nuovi e contingenti. Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di una più forte apertura al territorio, di maggiore collaborazione con il Terzo Settore, di creatività e coraggio nella sfida educativa; in poche parole, di più comunità educante.
Dagli insegnanti una propensione al cambiamento positiva
Il dato positivo è che gli insegnanti ci starebbero. Nel mese di giugno, subito dopo la fine dell’anno scolastico più difficile dalla fine della Seconda guerra mondiale, insieme alla Global Campaign for Education e a Giunti Scuola abbiamo realizzato un sondaggio per gli insegnanti di tutte le fasce scolastiche. Avevamo bisogno di capire come erano percepiti i problemi e le soluzioni più urgenti. Hanno risposto quasi 3.000 docenti da tutta Italia, dando segnali incoraggianti. Il 76% ha dichiarato di essere favorevole a un modello di scuola aperta, per il quale gli spazi degli istituti sono utilizzati anche al di fuori del tempo della didattica standard, e l’81% che la comunità educante esterna alla scuola e alla famiglia ha un ruolo rilevante e positivo per molti studenti.
Se partiamo da questi dati la strada da seguire appare ben tracciata. Occorre ripartire mettendo a sistema tutte le forze educative presenti nelle comunità perché siano capaci di collaborare e non lasciare nessuno indietro. Ognuno deve fare la sua parte, dai centri sportivi, agli oratori, ai luoghi di aggregazione. Le scuole devono imparare a porsi come capofila di nuove alleanze educative territoriali, perché hanno spazi, autorevolezza e competenza per farlo. E il Ministero dell’Istruzione, oltre a intervenire sull’edilizia scolastica, deve investire sul ripensamento degli spazi educativi in senso più ampio, coinvolgendo in primo luogo i grandi assenti dal dibattito, cioè le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi.
Trasformare l’incertezza in risorsa
Purtroppo, siamo in uno di quei momenti storici in cui immaginare il cosa (cosa serve, cosa bisogna fare) è più semplice che capire il come (in che modo realizzare ciò che serve), perché non è facile costruire comunità quando il sentimento dominante è la paura, e la distanza (fisica, non sociale) una necessaria forma di rispetto. I contributi lucidi e appassionati di Franco Lorenzoni, maestro e scrittore, e di Fabrizio Boldrini, direttore del Centro Studi di Villa Montesca, che leggerete nelle pagine di questo giornale, ci aiutano a mettere a fuoco due priorità, da confrontare giorno per giorno con il qui e ora, con il realismo del presente e i limiti imposti dalla situazione pandemica, che da educatori-cittadini siamo i primi a dover rispettare.
La prima è lottare per una didattica coraggiosa, capace di trasformare l’incertezza in cui siamo immersi in una risorsa per preparare i ragazzi ad affrontare la complessità. Possiamo usare le ore dedicate alla famosa Educazione Civica per raccontare il presente, connettere le preoccupazioni sulla salute con la necessità di ripensare in tempi brevi il nostro modo di abitare il pianeta, lavorare sull’eccezionalità delle sfide, della creatività e dell’ottimismo richiesti da questo tempo. Possiamo lavorare sull’autonomia, la libertà di pensiero, la coscienza che nell’incertezza i cambiamenti possono avvenire più rapidamente.
Ripensare gli spazi educativi
La seconda è ripensare gli spazi educativi insieme alle comunità, perché siano davvero curati e utilizzati. Oltre al necessario investimento sulle infrastrutture scolastiche, serve abitare le città non tanto di luoghi educativi, ma di luoghi dove c’è educazione. Possiamo mappare le risorse presenti (sia umane che materiali), lavorare per costruire Patti di Comunità con i tanti soggetti presenti sui territori, usare questo periodo in cui non ci si incontra all’aperto per preparare i ragazzi a riappropriarsi degli spazi, a sentirli propri, ad averne cura.
Un compito da educatori nello spazio, con la testa fra le stelle ma i piedi ben piantati a terra.