11/10/2017
di Stefano Lechiara
La Politica Agricola Comune (PAC) nasce sessant’anni fa in un contesto europeo segnato dalla scarsità degli approvvigionamenti alimentari e dall’arretratezza rurale. Sin dalle sue origini ha avuto l’obiettivo di garantire la sicurezza alimentare mediante politiche dei prezzi e finanziamenti destinati alla produzione agricola.
Da decenni alla PAC vengono riservate cospicue risorse economiche. Quello agricolo è infatti il secondo settore di impiego a livello europeo e soddisfa il fabbisogno alimentare di 500 milioni di persone. La spesa agricola incide attualmente per il 38% sul bilancio UE (2016), per un volume pari a 400 miliardi di euro.
Nonostante una mobilitazione di denaro pubblico così gravosa e continuativa, il settore agricolo vive una crisi profonda. La PAC è così oggetto di un processo di revisione che, in vista del 2020, dovrà concretizzarsi in una riforma in grado di imprimere quel cambio di passo avvertito ormai come impellente anche a livello istituzionale.
Il vulnus, però, non va ricercato altrove se non nell’approccio produttivistico a cui, peraltro, la PAC è abbarbicata da anni. Cambiamento climatico, consumo di suolo e acqua, inquinamento atmosferico connesso al sistema di produzione e distribuzione dei cibi, per citare solo alcuni degli elementi che hanno messo in crisi i sistemi alimentari odierni, sono tutti riconducibili a un paradigma di agricoltura di tipo industriale. Lo stesso vale anche per la concentrazione della proprietà delle terre, la graduale scomparsa delle piccole aziende, l’aumento del costo degli input agricoli (sementi, pesticidi e fertilizzanti) che, ormai, supera gli stessi profitti.
Ma in che modo l’UE intende venirne a capo? In quale misura è disposta a mettere mano ai presupposti della PAC e invertire così una tendenza che ha contribuito a plasmare?
Allo stato attuale, la riforma consiste in una manciata di interventi che, però, non mettono affatto in discussione i pilastri storici su cui si fonda la PAC. La strategia prescelta si riduce infatti ad una variazione dei target e delle modalità dei finanziamenti con l’obiettivo ambizioso di innescare, con queste sole misure, una transizione verso modelli agroalimentari più sostenibili.
In molti hanno sottolineato l’inconsistenza di queste misure, percepite in larga parte o come inadeguate o insufficienti. I nuovi meccanismi PAC atti ad incentivare l’adozione di “buone pratiche agricole” si rivelano strumenti di facciata. Ogni nobile proposito si infrange con il permanere di una forte iniquità nella distribuzione dei finanziamenti.
Se l’80% dei sussidi è destinato al 20% delle aziende agricole europee, cioè alle grandi imprese da 100 ettari in su, le piccole e medie aziende da 3-10 ettari (maggiormente vulnerabili) vengono tagliate fuori dalla riforma e, con esse, ogni sforzo in direzione di equità rurale, greening e diversificazione.
Appare chiaro che la riforma della PAC non riguardi solo l’Europa, solo l’agricoltura o solo gli “addetti ai lavori”. Un mutamento che sia davvero radicale approccia il piano dei diritti e lo fa in un’ottica mondiale e trasversale. La riforma della PAC interessa tutti noi. Ci riguarda in quanto “consumatori” e, cosa più importante, in qualità di cittadini globali in un mondo che dovrebbe reggersi sul rispetto dei diritti umani e ambientali. Sottrarre terre e sviluppo altrove per sostenere i ritmi elevati dei nostri allevamenti o la (distruttiva) dipendenza da input chimici dei nostri suoli, non è bastato a garantire un cibo sano e sufficiente in Europa. Il cittadino europeo ha perso la possibilità di scegliere il proprio regime alimentare. La domanda si è gradualmente conformata ad un’offerta limitata di cibi ipercalorici e poco nutrienti, sempre più indistinguibili al di là delle trovate pubblicitarie. E mentre gli standard qualitativi si abbassano vertiginosamente con effetti drastici sulla salute pubblica, i prezzi continuano ad essere funzione di un mercato del tutto sganciato da genuinità e diritti.
Queste considerazioni sono alla base della proposta di riforma avanzata da Olivier De Schutter – già relatore ONU per il diritto al cibo dal 2008 al 2014 – e Ipes Food, e che ha come orizzonte la trasformazione della politica agricola in Politica Alimentare Comune. Il cibo è posto al centro di una visione sistemica ove ambiente, salute, occupazione e diritti divengono dimensioni complementari secondo una logica di crescita veramente win-win. Incoraggiare la politica alimentare significa riconsegnare il cibo e le risorse per produrlo – terra, acqua e sementi in primis – alle persone, sottraendolo alla cooptazione operata dalle industrie. “Food for people, not for profit”, come recitava uno dei motti dell’Expo dei Popoli, promosso tra gli altri da Mani Tese, che nel 2015 in occasione dell’Esposizione Universale riunì a Milano 150 delegati di movimenti contadini e Ong provenienti da oltre 50 nazioni diverse.
Se la riforma main stream coltiva l’illusione di risolvere le criticità attuali impiegando gli stessi mezzi da cui hanno avuto origine, quella di De Schutter rappresenta, da una parte, un punto di rottura e, dall’altra, l’inizio di una trasformazione migliorativa multi-livello. Il punto di rottura consiste nel ribaltare la modalità di produzione e consumo del cibo, tarandone i ritmi in funzione delle esigenze nutrizionali delle persone e nel rispetto della biocapacità. Ciò significa implementare in modo serio e irreversibile la transizione da modelli intensivi e produttivistici verso sistemi agroecologici diversificati che, rispetto ai primi, sono più efficienti e sostenibili sotto il profilo ambientale, socio-economico e dal punto di vista dei diritti.
Collocato in questa visione integrata e olistica, il cibo avrà la capacità di irradiare una serie di vantaggi su più livelli. Agroecologia significa, in primo luogo, produzione circolare e, di conseguenza, integrità e rinnovabilità delle risorse naturali nel tempo con l’effetto immediato di un taglio netto alle emissioni di gas serra e una maggiore resa nel lungo termine. Il sostegno alla piccola scala comporterebbe poi l’abbattimento di quel meccanismo di concentrazione iniqua delle terre e favorirebbe finalmente l’accesso dei giovani al contesto neo-rurale europeo, così da porre le basi per un mercato sostenibile in cui i prezzi del cibo ritorneranno ad essere funzione della qualità. E ciò garantirebbe, inoltre, la possibilità reale di invertire il trend attuale che vede un aumento esponenziale delle malattie connesse agli stili alimentari insani.
“Allargare la prospettiva” significa quindi comprendere che il cibo gioca un ruolo chiave per affrontare ogni altra dimensione socio-economica nel quadro di uno sviluppo veramente sostenibile ed equo. Mani Tese non può che sottoscrivere una tale proposta a cui, di fatto, sin da subito ha dato pieno sostegno prendendo parte al processo pluriennale di elaborazione. Nei suoi settori d’intervento, inoltre, Mani Tese pratica e promuove l’agroecologia, reputandola un driver di sovranità alimentare e sfruttamento responsabile delle risorse naturali, dimensioni indispensabili per ridurre gli squilibri e i conflitti a livello globale.