Attualità

Corte Europea, Diritti Umani e Immigrazione


20/08/2012

La politica italiana di gestione dei flussi migratori -ed in particolare la pratica dei respingimenti forzati di migranti verso i loro Paesi di origine o transito- è stata sonoramente delegittimata dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, del 23 febbraio scorso, sul “caso Hirsi contro Italia”. Anzi, l’Italia in quanto tale è stata condannata per aver violato i diritti fondamentali di migranti raccolti in mare aperto e rispediti indietro a loro insaputa, senza aver prima verificato se avessero i requisiti giuridici per chiedere asilo politico o protezione internazionale. I fatti risalgono al 6 maggio 2009, ma la sentenza ha una portata generale che va oltre gli eventi specifici. Quel giorno, la Marina Italiana intercetta in acque internazionali un’imbarcazione con circa duecento immigrati a bordo; quest’ultimi vengono fatti salire sulla nave, credono di essere diretti a Lampedusa ed invece, dieci ore dopo, vengono tutti consegnati alla polizia libica nel porto di Tripoli. Dei duecento migranti, ventiquattro persone –undici somali e tredici eritrei- vengono rintracciate ed assistite in loco dal Consiglio Italiano per i Rifugiati, il quale, venuto a conoscenza dei fatti, presenta una denuncia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Per la prima volta, il tribunale che veglia sul rispetto della Convenzione Europea dei Diritti Umani viene sollecitato ad intervenire su una pratica divenuta corrente in Italia (e Malta), quella dei respingimenti forzati. La sentenza non poteva essere più chiara: l’Italia è colpevole di aver proceduto ad espulsioni collettive proibite dai testi giuridici europei; di aver rispedito i migranti verso un Paese dove rischiavano di essere sottoposti a tortura e a trattamenti inumani e degradanti; di non aver permesso loro di accedere a diritti garantiti da convenzioni internazionali; di aver insomma grossolanamente violato i diritti umani fondamentali. Per tali motivi, l’Italia dovrà risarcire i ventiquattro ricorrenti somali ed eritrei con quindicimila euro ciascuno. La sentenza introduce finalmente elementi certi di giustizia, solidarietà e diritto nella gestione di un fenomeno, quello migratorio, che gli Stati Membri dell’Unione Europea vorrebbero ridurre alla sola dimensione di ordine pubblico, clandestinità, repressione ed espulsione. La Corte restituisce ai migranti la loro dimensione umana e politica, ci ricorda che sono depositari di diritti contemplati in numerosi trattati e protocolli, richiama finalmente tutti gli Stati al rispetto della legalità.

Per certi versi, la sentenza ha una portata storica, anche perché si esprime in modo molto chiaro su tanti aspetti. Innanzitutto, si era detto che la Corte non era competente sui fatti perché prodottisi in acque internazionali. Invece, il tribunale afferma che “nel momento in cui uno stato firmatario della Convenzione esercita il suo controllo, la sua autorità e dunque la sua giurisdizione su un individuo, di qualsiasi nazionalità esso sia, deve riconoscere a costui i diritti enunciati nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale afferma nel suo primo articolo che i diritti e le libertà in essa contenuti vengono riconosciuti ad ogni persona sotto la giurisdizione del suddetto stato”. La Corte sottolinea che l’imbarcazione militare batteva bandiera italiana, tenuta dunque al rispetto della legislazione nazionale ed internazionale ratificata dal nostro Paese; rivendica perciò la sua competenza ad intervenire sull’argomento, un precedente giuridicamente molto importante che allarga la giurisdizione europea sui diritti umani.

A partire da questa rivendicazione, la Corte condanna l’Italia per pratiche illegali di espulsioni collettive. Uno degli articoli del “protocollo n.4” allegato alla Convenzione non si presta ad equivoci: “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”, punto e basta. Altre disposizioni riconoscono il diritto ad ogni persona migrante di poter chiedere asilo politico se ritiene di avere i motivi per farlo, ma nulla di tutto ciò è stato garantito. L’Italia viene perciò condannata anche per violazione dell’articolo tredici della Convenzione, quello che garantisce un “ricorso giuridico effettivo” ad ogni persona che lamenti una lesione dei suoi diritti. “Le autorità italiane –si legge nella sentenza- ammettono che la verifica della situazione individuale di ogni migrante non era stata evocata a bordo; del resto, i ricorrenti somali ed eritrei dicono di non aver ricevuto nessuna informazione da parte dei marinai italiani, i quali anzi avrebbero detto che si stavano dirigendo verso l’Italia, eliminando la possibilità per i migranti di opporsi al respingimento in Libia”.

Da un punto di vista politico, la condanna più severa riservata all’Italia è quella relativa alla violazione dell’articolo tre della Convenzione (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani e degradanti”). Le autorità italiane –dice in sostanza la Corte di Strasburgo- sapevano benissimo che la Libia era una dittatura dove i diritti umani venivano quotidianamente calpestati, far sbarcare i migranti a Tripoli significava saper bene di esporli alle sevizie della polizia locale e alla privazione dei loro diritti fondamentali, compreso quello alla giustizia indipendente. “La realtà libica era nota a tutti”, ironizza la Corte, che denuncia indirettamente la complicità politica che esisteva allora tra il Colonnello Gheddafi ed il Governo Berlusconi. Il “Patto di amicizia italo-libico” forniva il quadro politico dell’operazione: i migranti venivano intercettati in mare dagli italiani e rispediti in Libia, dove subivano torture e maltrattamenti, e dove a volte venivano fatti sparire o abbandonati nel deserto; in cambio, Roma si prodigava a srotolare il tappeto rosso della diplomazia e degli affari sotto i piedi di Gheddafi.

La sentenza del 23 febbraio scorso, insomma, fa proprie le argomentazioni sviluppate in tutti questi anni dalle ONG e da tante organizzazioni della società civile italiana ed europea, cattoliche e laiche. Ovvero, che i migranti sono esseri umani e che hanno diritto, al pari degli altri, di vedere rispettata la propria dignità; e che, se civiltà e stato di diritto hanno un senso, va permesso loro di accedere agli strumenti di protezione internazionale, laddove previsti e invocabili. In questi anni, invece, l’Italia ha scelto la strada della negazione del diritto, della violazione della dignità umana, ben conscia di farlo. E non ha esitato a fare dei migranti un capro espiatorio, per alimentare una politica della paura che ci ha portato a volte oltre i limiti della legittimità democratica, come nel caso dell’introduzione nel codice penale del “reato di clandestinità”, fino alle pratiche illegali delle espulsioni collettive o all’istituzione di fantomatiche “ronde per l’ordine pubblico” contro gli immigrati. La sentenza della Corte di Strasburgo offre un’opportunità all’Italia, quella di ritornare nel novero dei Paesi che rispettano i più elevati standard di civiltà giuridica e dei diritti umani. Un’occasione da non perdere, da perseguire con i fatti, affinché l’Italia rientri subito nei binari della legalità internazionale.

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