06/02/2014
Nonostante la tregua, firmata il 23 gennaio ad Addis Abeba, non si sono fermati i combattimenti in Sud Sudan. Il governo e l’SPLM/A all’opposizione si accusano reciprocamente di non aver deposto le armi. Sta di fatto che nel corso dell’ultima settimana le persone che hanno dovuto mettersi in salvo dal conflitto sono diventate più di 863.000; di queste 739.000 sono sfollate internamente mentre 123.000 hanno passato il confine con Uganda, Kenya, Etiopia e Sudan.
La tensione non è diminuita neppure con la scarcerazione, il 29 gennaio, di 7 degli 11 detenuti politici, arrestati il 16 dicembre, all’inizio della crisi. A loro è stato offerto rifugio in Kenya, dove sono stati accolti dal presidente Uhuru Kenyatta. Altri 7 politici, 4 dei quali detenuti, tra cui Pagan Amun, l’ex segretario dell’SPLM, e 3 che sono sfuggiti all’arresto, tra cui Rieck Machar, ex vicepresidente e ora a capo dell’opposizione armata, e Taban Deng Gai, capo del negoziatori di Addis Abeba, dovranno invece rispondere di alto tradimento. La decisione, seppur non del tutto inaspettata, non facilita certo la via per una ricomposizione del conflitto.
Così come non è certamente un segno di volontà di riconciliazione il fatto che, dopo la tregua, i combattimenti più accesi si siano avuti, e continuino ad essere, nel sud dello stato di Unity, per la riconquista dei campi petroliferi di Thar Jath e della cittadina di Leer, luogo di origine di Machar. Nel corso dell’ultima settimana la popolazione ha lasciato in massa la città, che è stata razziata e, secondo notizie ancora non confermate, rasa al suolo. Con la popolazione è sfollata anche la comunità dei padri e delle suore comboniane. L’ospedale, gestito da Medicine San Frontiere da 25 anni, è stato abbandonato dal personale e dai pazienti, timorosi che si ripetesse quanto è successo a Bor, dove uomini armati hanno massacrato i malati nei loro letti.
Intanto le organizzazioni internazionali cominciano a valutare l’impatto del conflitto sui bisogni di base della popolazione: 3.200.000 persone rischiano la fame ora e 7.000.000 potrebbero avere gravi problemi nel corso dell’anno. La stagione agricola è alle porte e i 3 stati settentrionali, irraggiungibili ora per il conflitto e poi per l’impraticabilità delle strade durante la stagione delle piogge, molto difficilmente potranno coltivare quest’anno, mentre le scorte di derrate alimentari e di input agricoli sono stati razziati. Così si calcola che in Unity il 65% della popolazione sarà in difficoltà estrema già a partire dalle prossime settimane, il 70% in Jonglei e il 46% in Upper Nile. Insomma, nonostante gli sforzi delle organizzazioni internazionali che in queste settimane di crisi hanno prodotto uno sforzo di coordinamento degli interventi e di informazione encomiabili, una catastrofe umanitaria potrebbe essere inevitabile in Sud Sudan nei prossimi mesi.