L’Africa che ho scoperto io non è quella che si studia sui libri

“Il matrimonio di Balkissa, il rossetto rosa di Manò, lo spirito da regina di Clemence, la simpatia di Nadine, la compostezza elegante di Chantal e il vestito verde-giallo di Rachele. Ecco un lato delle sei delegate del Burkina Faso che, in occasione di Terra Madre Giovani, hanno animato di vita della sede di Mani Tese […]

“Il matrimonio di Balkissa, il rossetto rosa di Manò, lo spirito da regina di Clemence, la simpatia di Nadine, la compostezza elegante di Chantal e il vestito verde-giallo di Rachele. Ecco un lato delle sei delegate del Burkina Faso che, in occasione di Terra Madre Giovani, hanno animato di vita della sede di Mani Tese nella prima settimana di ottobre.

Ricordo bene il momento in cui ci siamo incontrate. Io e Martina scendendo le scale per raggiungerle all’entrata ci eravamo fermate al penultimo gradino. Le ragazze erano all’ingresso, incappucciate, coi loro zaini e valige. Loro e noi, fissandoci incuriosite, pensavamo che avremmo vissuto insieme per sette giorni. All’inizio bisognava ancora trovare la chiave giusta per aprire le porte alla spontaneità e alla naturalezza… ma non c’è voluto molto per scovarla. Erano i momenti liberi gli attimi in cui, lontane dagli impegni istituzionali, si accendeva la reciproca sete di conoscenza e curiosità. Quando si mangiava, si prendeva insieme la metropolitana o prima di andare a dormire ci guardavamo negli occhi sapendo che dall’altra parte c’era una ragazza come noi con una storia da scoprire e racconti da intrecciare.

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L’avventura vissuta con queste sei ragazze, mi ha dato la chiara sensazione di come una cartina geografica non basta per raccontare la vita di una nazione e diventa sterile davanti ai volti umani che compongono ogni confine.  Molto spesso con la parola “Africa” o “Asia” o “America Latina” in mente sovvengono svariate immagini, molte di queste stereotipate, che però non si portano dietro il vero significato, la conoscenza e l’anima di questi paesi. Scoprire il Burkina Faso è stato osservare queste ragazze entrando sempre di più nel loro mondo, incrociando pensieri fino a diventare complici. Ho avuto la vivida sensazione che le tante voci o luoghi comuni che descrivono l’Africa come un paese “altro” o “diverso” dal mondo occidentale siano rumori vuoti, poiché, in verità, è la vita quotidiana delle persone che costituisce l’essenza di quegli stessi confini e che pulsa dietro a ogni cartina appesa ai muri. Con loro, avevo riempito quelle frontiere di vita e avevo dato un volto vero a uno stato.

Abbiamo trascorso del tempo insieme utilizzando semplicemente il linguaggio della curiosità e dell’amore per il prossimo, senza che la distanza, la lingua e vite lontane compromettessero il modo di comunicare e di creare un legame. Era divertente farmi prendere in giro dalle Burkinabè quando mi vedevano così stanca da chiudere gli occhi, o mentre parlavamo di ragazzi europei e ragazzi africani. Ho vissuto il sorriso come un codice universale che nasce dalle stesse emozioni. Non c’era bisogno di conoscersi a fondo, essere andate nella stessa scuola o aver avuto vite simili per instaurare un punto comune, passare davanti allo specchio nello stesso modo o sorridere per le stesse battute.

Le sere erano momenti di festa. Proprio quelle feste che le ragazze riescono a fare quando si trovano tutte insieme nella stessa stanza. Tra musica, tisane, foto della giornata, balli africani, voci e risate.. e a un certo punto arrivava sempre il momento “regali”.  Vedevo nei loro occhi l’importanza, quasi solenne, di donarci qualcosa, come i loro piccoli oggetti preziosi: braccialetti, orecchini, crema al burro di Karité, mango essiccato e arachidi. Da sempre il dono in alcune culture è stato il simbolo dell’accoglienza e dell’alleanza verso un altro popolo e per loro quello scambio era un gesto importante e fondamentale. Era il loro linguaggio per dirci “grazie”. Prima una e poi l’altra, durante i sette giorni insieme, ci offrivano ciò che ognuna poteva: Rachelle una manciata di cioccolatini appena comprati, Manò e Clemence i loro due braccialetti o Nadine le varie cianfrusaglie che aveva nella valigia.

Ci raccontavamo storie di studi, di sentimenti e di lavoro. Donne d’agricoltura che portano avanti la vita dei loro villaggi insieme a tante altre donne grazie anche a progetti sostenuti da Organizzazioni e ONG locali e internazionali. Sviluppare un contatto intimo con quelle sei ragazze mi ha fatto dimenticare le distanze, le frontiere e gli spazi. Eravamo entrate tutte in un unico territorio che non è fisico o spaziale ma è quello dell’Amicizia. E mentre nasceva questa sensazione mi rendevo conto che un’ingiustizia sociale, economica o ambientale subita da quella fetta di mondo è come un’ingiustizia fatta a noi stessi e ai nostri cari. Loro siamo noi e noi siamo loro. Ognuno dentro al suo movimento di vita. Ho colto davvero come la differenza tra Nord e Sud del mondo è una diversità nata dalla forza e dal potere, perché tutti noi, abitanti dei nostri confini, siamo accomunati da una stessa semplicità di fondo. Questa è la nostra prima natura. Tutti ridiamo nello stesso modo, tutti camminando per strade nuove guardiamo i negozi con l’idea di compare qualcosa ai nostri famigliari o amici, tutti svegliandoci per la colazione accenniamo un buongiorno, ognuno di noi ha i suoi segni delle esperienze vissute, ricordi che si porta nel cuore, gli stessi occhi lucidi quando è preso dell’emozione e la stessa bontà con cui fare regali.

L’Africa che ho scoperto io non è quella che si studia sui libri. L’Africa è stato conoscere anche le foto di matrimonio di Balikissa, è stato bere birra con Manò e Rachelle, scoprire come tutte loro non vedevano l’ora di sentirsi promettere che in serata avremmo ballato. È stato darle consigli sul menù del ristorante, farle conoscere latte e cornflakes al mattino, il gusto freddo del gelato, il sapore delle pere e portarle a fare shopping. L’Africa è fatta dalle persone che la costituiscono e non da immaginari che la identificano come un unico blocco privandole di bellezza, peculiarità e giusta attenzione.

La settimana con le Burkinabé prima di tutto è stata un’ esperienza umana. A tutti quelli che da quel momento mi hanno chiesto com’è stato vivere quest’avventura ho risposto che non sono andata io in Africa ma l’Africa è venuta da me.” 

Di Allison Zaghet