COSA È SUCCESSO ALLA COP23: LE NOSTRE CONCLUSIONI

Dieci giorni di negoziati non sono bastati alla COP23 di Bonn per arrivare a concludere accordi politicamente rilevanti

Il bicchiere, alla fine, appare più mezzo vuoto che mezzo pieno.

Dieci giorni di negoziati non sono bastati alla COP23 di Bonn per arrivare a concludere accordi politicamente rilevanti sulle questioni chiave della vigilia. Ci sono stati dei passi in avanti, certo, e alcuni incoraggianti, ma la dichiarazione finale, affidata alla presidenza appassionata delle isole Fiji, che hanno costretto i delegati ad un round finale di negoziati durato più di 24 ore, suona poco consistente rispetto all’urgenza di porre un freno alle emissioni gas serra nell’atmosfera. Siamo ancora molto distanti tra la portata delle previsioni scientifiche e i cosiddetti “regolamenti attuativi”, che dovrebbero tradurre l’intenzione di fissare l’innalzamento globale della temperatura a 1,5° o comunque contenerlo al di sotto dei 2°, in programmi concreti. La sensazione generale è che, fatte salve alcune note positive, il vero esame sia stato rimandato al prossimo anno, ovvero alla COP24 che si terrà nel Dicembre 2018 a Katowice sotto la presidenza polacca, paese che fonda buona parte della sua produzione energetica proprio sul carbone.

Proviamo a riassumere brevemente come è andata tra presenti e assenti a quello che, nel bene e nel male, rappresenta l’appuntamento più importante della comunità internazionale sui cambiamenti climatici.

Il più grande assente sono stati i media, ed è un dato molto preoccupante. Se provate a fare una semplice ricerca in rete sui risultati della COP23 vi accorgerete che non è facile trovare articoli o commenti al di là di quelli forniti dalle organizzazioni ambientaliste. I principali media italiani hanno sostanzialmente ignorato l’evento, considerandolo di scarso interesse per l’opinione pubblica. Un segnale molto forte dello scollamento che fa ancora percepire il tema del cambiamento climatico come una questione di nicchia e non un problema di tutti. Sembra che il mondo del giornalismo italiano non abbia ancora fatto il collegamento tra gli eventi climatici eccezionali, di cui ci informano con dovizia di particolari, e le politiche per contenerli. Una mancanza grave, perché senza la pressione dei media anche quella della società civile, pur più efficace e meglio organizzata che in passato, risulta meno incisiva.

Presente come sempre invece la comunità scientifica internazionale, che ha rilanciato un appello firmato da 15.364 personalità del mondo accademico provenienti da 184 paesi per ribadire la necessità di agire subito e con urgenza, perché i trend presi come riferimento durante la COP21 di Parigi non hanno fatto registrare miglioramenti in questi due anni. Anzi, il 2016 ha segnato un nuovo record mondiale nelle emissioni di gas serra in atmosfera.

Assente come annunciato (anzi, presente con l’intenzione di boicottare i lavori) la sempre più isolata amministrazione Trump, ma presenti aziende, città e stati Nord Americani che hanno partecipato attivamente ai lavori portando impegni e proposte. Un segnale positivo, accentuato dalla notizia che perfino la Siria ha deciso di entrare nell’accordo di Parigi, lasciando gli Stati Uniti soli nell’intenzione di uscire dal patto.

L’Italia, possiamo dire presente. Ci siamo anche noi tra i primi firmatari della Powering Past Coal Alliance, che si propone di accelerare il processo di decarbonizzazione fino a renderlo completo entro il 2030 nei paesi OCSE ed EU ed entro il 2050 nel resto del mondo. Interesse confermato anche dalla candidatura dell’Italia per ospitare la COP26 nel 2020, che sarà l’anno chiave per l’attuazione degli accordi di Parigi. Buone notizie quindi, che dovranno trovare riscontro in un impegno concreto per ridurre le emissioni nazionali, come afferma la presidente nazionale di Legambiente, Rossella Muroni, a margine della conferenza.

Assenti, purtroppo, molti di quelli che contano davvero, e che avrebbero potuto con una loro presenza innalzare il livello politico dell’appuntamento. Con l’eccezione di Macron e della Merkel, presente più che altro per i doveri di etichetta dovuti dal padrone di casa, i grandi della terra non si sono fatti vedere, contribuendo implicitamente a tenere fuori dai negoziati le questioni centrali, che sono state rimandate al prossimo anno.

Tra gli aspetti positivi, oltre a quelli già citati due buone notizie sui temi più cari alle ONG come Mani Tese:

  • il tavolo di lavoro sulla sicurezza alimentare e l’agricoltura, settore responsabile di circa il 21% delle emissioni di gas serra, sembra essere uscito da un lungo periodo di stallo. La decisione che troviamo nei report è quella di unire un tavolo tecnico con uno dedicato all’implementazione delle politiche di riduzione di gas serra nel settore alimentare. Ora è possibile “focalizzare gli sforzi per rendere l’agricoltura meno inquinante e più capace di fronteggiare i cambiamenti climatici”, afferma Teresa Anderson, Climate and Resilience Policy Officer di ActionAid International.
  • viene riconosciuto il ruolo dei popoli indigeni nella conservazione della biodiversità e nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso una “Local communities and indigenous peoples platform”, che avrà l’importante effetto far emergere le comunità indigene come interlocutori nei processi negoziali.

Per il resto toccherà aspettare il prossimo dicembre in Polonia, che verrà preparato durante tutto l’anno attraverso l’approccio del Talanoa Dialogue, ufficialmente riconosciuto come metodologia per la facilitazione dei lavori. Il Talanoa Dialogue è un approccio usato da alcune popolazioni che abitano le isole del Pacifico per favorire un dialogo inclusivo, partecipativo e trasparente. Il metodo si basa sulla costruzione di empatia e fiducia tra i soggetti in dialogo tramite lo storytelling. Talanoa, infatti, significa storia in maori. La definizione dell’Agenda per portare i negoziati fino alla COP24 sarà interamente improntata sull’applicazione di questo metodo.

È questa forse l’impronta più significativa lasciata dalla presidenza delle Fiji, in una conferenza anomala in cui la retorica ha voluto che la conduzione fosse lasciata ad uno dei paesi che saranno toccati per primi dagli effetti dei cambiamenti climatici, mentre la pratica ha fatto sì che per ragioni di comodità la conferenza fosse ospitata in una delle città simbolo dell’industrializzazione europea, nata e prosperata col carbone e con l’acciaio. Un po’ pochino forse come lascito. A Katowice non basterà raccontarsi storie ma occorrerà prendere decisioni. Speriamo che Talanoa ci aiuti a riempire il bicchiere di impegni concreti.