C’E’ UN MODO NUOVO DI GUARDARE ALL’AFRICA

Negli ultimi tempi l’atteggiamento della politica italiana nei confronti del continente africano è cambiato: da una sostanziale indifferenza venata di pietismo che ha caratterizzato gli anni successivi alla fine della guerra fredda si è passati a un’attenzione progressivamente più interessata. Un momento decisivo in questa trasformazione è stato il Forum sulla Cooperazione organizzato dall’effimero Ministero […]

Negli ultimi tempi l’atteggiamento della politica italiana nei confronti del continente africano è cambiato: da una sostanziale indifferenza venata di pietismo che ha caratterizzato gli anni successivi alla fine della guerra fredda si è passati a un’attenzione progressivamente più interessata.

Un momento decisivo in questa trasformazione è stato il Forum sulla Cooperazione organizzato dall’effimero Ministero della cooperazione internazionale nel 2012. Si ritrovarono sul palco, come uniti da un obiettivo comune, i principali ministri del governo italiano, l’amministratore delegato di ENI, la più grande impresa del nostro paese, e il Presidente del Burkina Faso, poi deposto dalla popolazione dopo 27 anni di governo.

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Deu Afriche si toccano alla periferia di nairobi, dove i grattacieli fanno da sfondo al pascolo delle zebre. Segni di un mondo che cambia velocemente e che chiede alla comunità internazionale un’attenzione nuova, lontana dagli stereotipi del passato (Foto di Cristina Gastaldi)

In quella giornata i diversi relatori dichiararono che era necessario un nuovo atteggiamento nei confronti dell’Africa che non guardasse alla cooperazione come a un atto di pietà, ma come a un investimento che porti a un beneficio comune. Negli anni successivi, in particolare con l’acuirsi della crisi dei migranti, i segnali di una nuova attenzione verso l’Africa si sono intensificati: è stato creato un Fondo europeo per l’Africa (nel 2015), il Presidente del Consiglio italiano ha fatto tre viaggi nel continente africano e nel 2016 il partito del premier ha presentato il cosiddetto “Africa act”, un insieme di misure tese a rafforzare la presenza italiana nel continente. Perché questa trasformazione? Si tratta di una strategia realmente nuova o è solo un modo diverso di raccontare le stesse pratiche? In ultima analisi, si tratta di un cambiamento positivo, o no? Cerchiamo di fare ordine.

L’interesse comune

Alla base di questo nuovo sguardo sull’Africa c’è un nuovo racconto della cooperazione che da strumento di “aiuto allo sviluppo” si sta trasformando nella cosiddetta “cooperazione win-win”, nella quale tutti i soggetti coinvolti dovrebbero avere un vantaggio: le imprese italiane guadagnano mercati e rispondono così alla crisi di lungo periodo che percorre il paese, le popolazioni africane hanno accesso a nuovi beni e servizi. A ben vedere non si tratta di un concetto così nuovo, né così originale. Negli anni Venti, il principale teorico della colonizzazione britannica Frederick Lugard parlava esplicitamente di un “doppio mandato” della colonizzazione: favorire l’economia della madrepatria e sviluppare le popolazioni colonizzate. Guardando in casa nostra, invece, la più grande impresa di costruzioni italiana, Impregilo (quella del ponte di Messina) è nata nel 1955 per costruire la diga di Kariba, tra Zambia e Zimbabwe e ancora oggi è attiva in molti paesi africani. Del resto, la tendenza a unire interessi privati e finalità sociali è ormai molto diffusa. Anche il governo cinese da oltre un decennio ha fondato le sue relazioni con il continente africano proprio sul principio del mutuo vantaggio: infrastrutture in cambio di accesso ai mercati e alle materie prime. Non si tratta dunque di una strategia completamente nuova e le esperienze simili, passate e presenti, sono state declinate più nella direzione dello sfruttamento che in quello di un reale “mutuo vantaggio”. Occorre però andare più a fondo per capire se esistono delle potenzialità innovative e positive in questa nuova strategia di cooperazione con l’Africa. Un elemento da considerare, ad esempio, è che uno dei più grandi cambiamenti della storia recente del continente africano, la diffusione della telefonia mobile, ha visto praticamente assente la tradizionale cooperazione dell’”aiuto allo sviluppo” ed è stato promosso fondamentalmente da imprese private, spesso internazionali. Oggi il tasso di penetrazione della telefonia mobile nel continente è vicino all’80% e anche grazie a questo la qualità della vita è migliorata in città come in campagna. Una situazione simile si sta verificando con la diffusione dell’energia solare che permette oggi agli abitanti dei quartieri e dei villaggi che non sono raggiunti dalla rete pubblica di disporre dell’elettricità, cioè di un potente volano per migliorare la propria qualità della vita. Anche in questo caso i soggetti che stanno spingendo la trasformazione sono perlopiù imprese private: d.light, ad esempio, è un’impresa statunitense fondata nel 2007 che produce lampade solari a basso prezzo e che oggi ha più di 15 milioni di clienti in 50 paesi anche grazie a un partenariato con la cooperazione statunitense. Il punto centrale, dunque, non è se possa esistere un punto di incontro tra gli interessi delle imprese e il benessere pubblico, quanto piuttosto quale tipo di impresa si vuole sostenere. Il mercato della telefonia mobile, e sempre di più anche quello dell’energia solare, ha infatti prodotto rilevanti ricadute positive anche per l’economia locale con la creazione di innumerevoli imprese, dalle microscopiche attività di riparazione ad aziende medie e grandi che contendono oggi il mercato alle multinazionali del settore. È difficile però associare il caso di un’impresa che produce energia solare a basso costo con quello, per fare un esempio, di una grande multinazionale dell’estrazione petrolifera che da decenni produce danni ambientali nel delta del fiume Niger. Su questa scelta tra due diversi modelli di cooperazione, tra due diversi modelli di impresa, occorrerà valutare la novità di questo cambiamento di attenzione nei confronti del continente.

“Aiutiamoli a casa loro”

L’altro grande asse di questo nuovo interesse per il continente africano è legato alla cosiddetta “emergenza migranti”. L’idea, in sintesi, è: invece di continuare a inseguire soluzioni temporanee di gestione dei flussi migratori, dobbiamo intervenire alla radice del problema, sostenendo le economie delle regioni di partenza dei migranti. Questa nuova visione del problema ha molti sostenitori, alcuni in buona fede, altri meno. Lasciamo pure da parte, per economia di tempo, chi usa la retorica dell’“aiutiamoli a casa loro” come scusa per rifiutare l’accoglienza dei migranti, ma in realtà non ha mai fatto nulla per aiutare nessuno, e analizziamo la questione nella sua oggettività. Il primo dato è senza dubbio positivo: finalmente il dibattito pubblico sulle migrazioni internazionali si sta lentamente spostando dall’ultima fase del percorso (li vogliamo/non li vogliamo), verso le cause lontane del fenomeno. Fatto questo primo passo però, l’analisi si fa più confusa e viene fondamentalmente mancata la questione centrale: le persone che, quando va bene, arrivano in Europa dall’Africa non sono vittime di un oscuro fato per il quale dovrebbero essere aiutate, ma subiscono ingiustizie politiche, economiche, ambientali alle quali pensano di poter dare risposta allontanandosi dalla regione di origine. Intervenire alla radice della questione significa dunque porsi il problema delle ingiustizie di cui i migranti sono vittime. Nel 2015 l’Eritrea è stato il primo paese africano per provenienza dei migranti (oltre 45.000 richiedenti asilo) in Europa. In Eritrea è al potere da 25 anni un presidente che ha progressivamente limitato le libertà politiche del suo popolo e qualsiasi analisi dell’emigrazione dall’Eritrea non può prescindere dall’ingiustizia politica che gli eritrei stanno vivendo (vedi l’articolo di Bruna Sironi a pagina 10). Più a fondo il problema è che sono spesso gli Stati europei una delle cause delle ingiustizie da cui sfuggono i migranti. Abbiamo già citato la Nigeria (secondo paese africano per provenienza dei richiedenti asilo nel 2015) dove da decenni le imprese europee e americane di estrazione del petrolio stanno danneggiando in modo irreparabile una regione grande tre volte la Lombardia. Vale la pena di sottolineare come, nell’ultimo viaggio in Africa, il Presidente del Consiglio italiano fosse accompagnato da rappresentanti di ENI e che la Nigeria sia stata proprio la prima tappa. Anche senza cercare casi così eclatanti, si può sottolineare come le difficoltà economiche che spingono molti giovani senza lavoro a migrare verso l’Europa trovino le loro cause proprio in comportamenti poco corretti da parte delle imprese europee. Un esempio molto chiaro di questo discorso si trova in una bella inchiesta di Mathilde Auvillain e Stefano Liberti, The dark Side of the Italian Tomato, che mette in luce il processo circolare che lega migrazione, lavoro schiavo nelle piantagioni di pomodori in Italia, esportazione del concentrato di pomodoro nei mercati africani e crisi dell’industria del pomodoro in Ghana. Più in generale, occorre valutare la coerenza tra le politiche economiche europee e la dichiarata volontà di agire alla radice della questione migratoria. Negli ultimi 15 anni l’Unione Europea ha spinto affinché gli Stati africani firmassero accordi di libero scambio con l’Europa che espongono le nascenti industrie africane a una concorrenza che difficilmente potranno sopportare (ne parla Samuel Muhunyu nell’intervista di pag. 8). Le difficoltà delle imprese africane si tradurranno in minori possibilità di lavoro e dunque probabilmente in nuove migrazioni.

Meno aiuto, più giustizia

La nuova attenzione nei confronti del continente africano è senz’altro un fatto positivo, se non altro perché riporta al centro del dibattito un continente che in generale è poco e male conosciuto, almeno in Italia. Un altro elemento positivo è che questa nuova attenzione “interessata” ci permette di superare il vecchio atteggiamento paternalistico del donatore che caratterizza ancora molte delle nostre azioni nei confronti del continente africano. L’Africa sta cambiando rapidamente e nuovi soggetti interni (la società civile) ed esterni (paesi “emergenti” come la Cina, il Brasile, l’India) stanno definendo rapporti di potere diversi dal passato. Questo passaggio però apre a scenari molto diversi, secondo la strada che si vorrà intraprendere: da una parte c’è la fine dell’aiuto allo sviluppo a favore di una competizione sempre più spinta tra paesi e tra imprese, dall’altra c’è una cooperazione rinnovata, che guarda alle società africane come partner con cui lavorare e non come soggetti da assistere. La cooperazione del futuro dovrà essere capace di ragionare in modo sistemico, osservando le analogie e le relazioni esistenti tra le povertà e le ingiustizie, in Europa e in Africa. Enti pubblici e imprese private, fondazioni filantropiche e organizzazioni della società civile in Europa e in Africa saranno soggetti cruciali di questa nuova cooperazione, a patto che l’obiettivo finale, costruire un pianeta più equo, sia condiviso da tutti.

LA GRANDEZZA DELLA (VERA) AFRICA
Un invito a pensare in modo diverso. L’Africa contiene Stati Uniti, Cina, Giappone, India e gran parte dell’Europa. Nell’immagine vengono considerate le superfici reali degli Stati, senza le deformazioni prodotte dalle più comuni proiezioni cartografiche.

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Articolo comparso sul periodico di Mani Tese di dicembre